“Nel suo colto, bellissimo libro Otello Fabris, storico dell’alimentazione di area veneta, si getta caparbiamente in una ricerca storicamente ancorata alle fonti, sul baccalà, o meglio sullo stoccafisso e sui suoi misteri. Il punto di partenza è proprio l’etimologia e quell’errore fatale per cui “il più famoso piatto della cucina vicentina, il Baccalà alla vicentina, viene preparato con lo stoccafisso. “Gli abitanti di questa colta provincia” – ci dice Fabris- “hanno finito per farsene una colpa, avendolo chiamato con il nome sbagliato”. In realtà, fonti alla mano, si scopre che i termini sono stati usati indistintamente per alcuni secoli, che si parla di merluzzo intendendo lo stoccafisso, che si parla di baccalà al posto dello stoccafisso, che esiste uno stoccafisso salato e che di più questi nomi sono considerati sinonimi. Così nel testo di anonimo di area piemontese Il cuoco piemontese perfezionato a Parigi (Torino 1766), così in Anfibi e pesci di Sardegna (Mannheim, 1726- Sassari, 1778) dove si legge: “Baccalà, merluzzo, stochefish, laberdon sono tutti nomi di uno stesso cabeliau diversamente preparato”. Dunque stoccafisso o baccalà? Risalendo verso nord, fino alle isole Farøer dove il merluzzo secco si produce, si avranno risposte parziali, capaci soprattutto di aprire a nuove domande. Lì si parla da sempre solo ed esclusivamente di “pesce secco” (Tørrfisk), termine applicabile del resto non al solo merluzzo, ma a ogni altro tipo di pesce conservato in questo modo, dunque una tecnica e non un prodotto. La radice etimologica deriverebbe secondo alcune interpretazioni niente meno che dal richiamo al dio Thor e farebbe del termine qualcosa come -il pesce di Thor-. Fabris accoglie invece l’idea della penetrazione di una radice latina, quella del verbo torrere (seccare) molto vicina al norvegese Tørrka che egualmente significa seccare, dunque nuovamente la tecnica di conservazione e non il prodotto. Il che del resto renderebbe ragione della presenza, sottolineata in diversi documenti, di Torrefacienda nelle isole norvegesi a partire dal Medioevo e destinate a lavorare il pesce per i porti tedeschi. Arrivato in Germania il pesce secco norvegese diventa Stockfish, ovvero pesce bastone. E qui si aprono diverse questioni. Stock farebbe riferimento all’aspetto legnoso del pesce? O piuttosto, come si legge nell’interpretazione in latino di Erasamo da Rotterdam (riportata dal naturalista svizzero Konrad von Gesner nel ‘500) sarebbe il richiamo al bastone - baculum - con cui deve essere battuto per venire ammorbidito? L’interpretazione è dubbia e lo era già nel Cinquecento, quel che appare probabile è che il termine tedesco sia una traslazione dal latino, sia che lo si intendesse come pesce dall’aspetto di legno, sia che lo si intendesse come pesce da battere con il bastone. Non è difficile in effetti notare che baculum sia straordinariamente vicino a baccalà e a tutte le denominazioni di area neo-latina, peccato però che nelle fonti non ci sia traccia diretta (fino ad ora) di un bacularius piscis. Secondo altre interpretazioni del resto il termine - baccalà - non sarebbe che l’italianizzazione dello spagnolo –bacalao-, arrivato nella nostra penisola con la dominazione spagnola. Ma Fabris non ci sta e propone anzi una sorta di rovesciamento. Sempre con la mano e la testa nelle fonti lo studioso nota come nel veneziano antico il lemma bacaladi (baccallari, baccalari) indica una parte precisa delle galee veneziane (“…è un supporto a forma di ala di gabbiano, fissato sulla coperta in corrispondenza di un baglio… che serviva per reggere il posticcio su cui erano calmierati i remi”, in Guido Ercole, Le galee mediterranee. 500 anni di storia, tecniche, documenti, Trento, 2008) ed in effetti, prosegue Fabris, la parte del legno che sporge dalla coperta è molto simile alla forma di uno stoccafisso. L’ipotesi è che la somiglianza tra le triremi romane e le galee veneziane abbia portato con sé anche l’uso della terminologia, così che il baculum (bastone/palo sporgente fuori bordo) sia diventato a Venezia baccalaro e di lì abbia viaggiato lungo le rotte della Serenissima per il Mediterraneo, e poi fino alle Fiandre, Bruges, Anversa. “Non è impossibile”, scrive Fabris, “che i veneziani, visti i primi stoccafissi nei porti spagnoli, li abbiano chiamati con il nome di questi oggetti che a loro erano già familiari”. E qui c’è da riscrivere tutta una storia, in termini di date e pure di direzioni. “Messedaglia sostiene che l’ingresso del nome Baccalà in Italia sia avvenuto nella seconda metà del ‘600, proveniente dalla Spagna; qui, egli dice, sarebbe comparso solo nel primo ‘500, importato a sua volta dal basso tedesco Bakeliauw; afferma inoltre che nella sua versione spagnola Baccallao si viene a formare nei porti andalusi. È la lettura di Cervantes a suggerirgli che questo nome fosse limitato a questa regione. Ma si sbagliava, non di poco. Sia “baccalà” che “Stocfis” compaiono nella carte nautiche venete del ‘400 per designare i banchi di Terranova. Già a quest’epoca quindi per i veneti “baccalà” equivale a “Stocfis”. (…) C’è quindi la possibilità che la parola abbia fatto il percorso inverso a quello che sinora si è creduto. Se si vuol dar credito alla tesi esposta è facile comprendere che l’errore linguistico dei veneti è tutt’altro che un errore e che baccalà e stoccafisso indicavano esattamente la stessa cosa, il pesce bastone.” La storia è affascinate perché rintraccia e incrocia tra loro i percorsi delle parole, delle barche e dei pesci, ma l’etimologia non è che uno dei misteri del ragno.”