È il 1630 quando il capitano Alonso de Contreras affida alla carta e all’inchiostro le proprie memorie militaresche (e umane). Come fecero del resto molti tra i soldati spagnoli di fanteria dell’epoca all’approssimarsi del tramonto dell’esistenza; chi per ottenere favori o riconoscimenti, chi per vanagloria o nella speranza di lasciare una traccia di sé ai posteri. Tutti o quasi accomunati da una scrittura onesta e sobria, da un lato ereditata dall’abitudine al resoconto asciutto, tipica di soldati e veterani qual è Contreras, dall’altro per lo scarso se non inesistente bagaglio culturale dell’autore, che ne diventa paradossalmente il punto di forza. «Sono proprio l’assenza di ambizioni letterarie, la goffaggine narrativa, l’ingenuità tecnica a rendere così singolari quei racconti. Che, quanto ad esattezza priva di erudizione, naturalezza elementare, efficace e disinibita alta capacità descrittiva, superano la scrittura di mestiere trasformando ogni testimonianza in una miniera d’oro», come sottolinea l’autore della Prefazione. Disseppellita dall’oblio dopo tre secoli, infatti, l’autobiografia di De Contreras conquista la crème degli intellettuali europei di inizio Novecento, da José Ortega y Gasset a Sciascia, approdando sulla scrivania di Leo Longanesi negli anni ’40 e ispirando, mezzo secolo dopo, ad Arturo Pérez-Reverte il personaggio del capitano Alatriste. Tra i suoi punti di forza, il linguaggio vero, amalgama di un parlato e della lingua franca che risuonava nei porti del Mediterraneo dell’epoca, la sua sincerità, la memoria strabiliante, lo slancio narrativo che mai si sovrappone alla verità e che lo rende incredibilmente moderno e attuale.
Data pubblicazione
05/05/2018