Nella Libia di oggi tradizione e modernità si mescolano quotidianamente nell’esperienza di qualunque visitatore. Lungo le arterie principali dei centri abitati corrono a folle velocità le auto più moderne della produzione occidentale e dell’estremo oriente, selve di antenne paraboliche ammiccano ai satelliti densi di canali televisivi dell’intero pianeta, ma, negli stessi luoghi, è frequentissimo imbattersi negli enormi tendoni issati a proteggere le fasi delle cerimonie matrimoniali o intravedere l’occhio timido che scruta il mondo dalle bianche e lunghe vesti di molti donne. Decine di uomini d’affari solcano indaffarati i centri di Tripoli, Bendasi, Sebha o Sirte, sfiorando rilassati fumatori di narghilè, anziani seduti a terra a far capannello intorno a una teiera o bimbi, a piedi scalzi, che giocano a calcio in qualche spiazzo sabbioso. La moda occidentale affascina molte ragazze, altre, con il rituale fazzoletto sul capo, camminano in fretta lo sguardo diritto in avanti, altre ancora, più giovani vestono la tuta mimetica obbligatoria in molte scuole superiori. Ma su tutto questo, sulle piazze coloniali delle città e sulle palme che assecondano morbide i moti del vento, sui grovigli di sopraelevate e svincoli avveniristici e sulla quiete delle moschee, si sparge, rassicurante, il suono deciso della voce del muezzin. La Libia si ferma, anche solo un attimo, a ricordare la sua identità e quel suono percorre ogni spazio dell’uomo, della terra e del cielo, quel suono ricompone il puzzle di vecchio e di nuovo, quel suono è la costante, metodica e fin dolce, colonna sonora di un unico paese.
Data pubblicazione
01/04/2006