Trieste è il suo mare. Un mare diverso da qualsiasi altro, che da subito cambia nome e diventa più familiarmente “bagno”, a indicarne una prossimità domestica: molteplice e paradossale. Al bagno ci si va non solo a prendere il sole, ma a chiacchierare, correre, litigare, lasciare giuramenti, con la pelle cosparsa di olio o con la sciarpa in pile tirata fino sopra il naso. Fin dall’infanzia si assorbe “questa familiarità con il mare, con il sentimento della sua necessità; quel senso delle grandi estati e della loro apertura. Un’apertura che non è solo fisica, ma anche culturale e umana”. Ogni bagno a Trieste è rigorosamente diverso dall’altro. Ognuno sa riconoscere il proprio a istinto, così come ogni scrittore sa raccontarlo: La Diga di Claudio Grisancich e Gillo Dorfles, gli scogli di Barcola nei ricordi d’infanzia di Claudio Magris, Mauro Covacich e Boris Pahor, l’ambigua e seducente Costa dei Barbari di Mary Barbara Tolusso, il Bagno Militare di Pietro Spirito, il bagno Sticco visitato da Veit Heinichen, il popolare Pedocìn di Pino Roveredo, fino al leggendario bagno Ausonia raccontato da Alessandro Mezzena Lona. A Trieste il mare non si può sfuggire, e il mito asburgico si frantuma e si ricompone nella promessa di una felicità sempre rimandata e mai smentita, sospesa tra la malinconia che prende a guardare il mare dai Campi Elisi la sera e la nostalgia fugace per la risata di un ragazzino che chiama il tuffo, bomba americana. Nei bagni Trieste splende delle sue contraddizioni, quelle stesse che tormentano i suoi migliori scrittori: l’anima vispa e licenziosa che si aggira per le strade, il tempo immobile e la Bora che può far uscire matti, la noncuranza leggera delle abitudini, la sua iride blu marino.
Data pubblicazione
17/09/2015