Il mare, si sa, è una gran scuola di scrittura. E i nove anni che James Hanley (1901-1985) trascorse come mozzo su varie navi mercantili (e militari, negli ultimi stadi della prima guerra mondiale), gli fornirono i materiali, lo sguardo, i ritmi - i tempi lunghi ma fulminei - delle decine di romanzi e racconti che scrisse a partire dagli anni trenta: un'opera vasta e ipnotica, come un unico grande libro dove poche situazioni essenziali - il sogno, la solitudine, il lavoro, la solidarietà, la morte, la sopravvivenza - rappresentano, fragile e ostinata, tutta la condizione umana. L'oceano, romanzo breve e straordinariamente compatto, che si legge d'un fiato, è uno dei suoi capolavori. Una nave diretta in Canada viene silurata. Cinque uomini sono temporaneamente in salvo su una scialuppa. Ma la riserva d'acqua e di cibo è limitata, e solo uno di loro, il marinaio Curtain, ha qualche idea di come affrontare l'emergenza, e la necessaria fermezza d'animo. Un vecchio sacerdote, padre Michaels, è malato, può solo pregare. Gli altri possono aiutare a remare. Ma, soprattutto, vanno accuditi, rincuorati e tenuti a bada: il silenzio ("era una montagna: istupidito dal proprio potere") è pericoloso, il rancore in un attimo può montare, un conflitto sarebbe fatale per tutti. Lo scenario, si vede, è semplicissimo e immutabile. Gli uomini di mare di Hanley non hanno il titanismo dei marinai di Melville, né l'eloquenza e la complessità interiore dei capitani di Conrad. Semmai L'oceano può ricordare certi romanzi dell'ultimo William Golding, o La nave morta del misterioso B. Traven (lo suggerisce Alan Ross nella bella postfazione); oltre, naturalmente, al magnifico racconto di Stephen Crane La scialuppa. Ma quest'estrema scarnificazione non significa in alcun modo la rinuncia a tutta una gamma di emozioni, improvvise scontrosità, scoppi di violenza, momenti di fiducia e di dubbio, delirio, comprensione e perdono. Come in quella pagina di struggente delicatezza psicologica, quando Curtain seppellisce in mare il cadavere di un amico, senza chiedere la presenza del prete per lasciarlo riposare e non conturbare il resto dell'equipaggio. Né il realismo esclude il sublime visionario, come nell'incontro degli uomini della scialuppa con una balena: rasserenante, affabile come natura appena creata ("La balena si tuffò, riemerse, danzò sull'acqua sorridente"), eppure incomprensibile, irriducibile all'umano, come il Leviatano di Giobbe: "Alzò l'altra mano agli occhi, il sole era martellante, seguiva ogni mossa dello splendido animale. Lo vide come un essere perduto, errante, solo. Si chiese cosa vedessero i suoi occhi sotto la superficie. I getti d'acqua l'affascinavano; guardava la balena con la bocca socchiusa. A volte gli pareva che si buttasse in avanti a grande velocità diretta verso qualche meta, e poi capì che nell'oceano non c'è mai una meta: l'oceano è solo un vasto cerchio di onde - l'immutabile ordinamento delle onde - mai stanco, mai fermo. La balena viveva in quelle acque, circondata da muri e muri di silenzio".