Colapesce

Colapesce

La Capria Raffaele


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Era inevitabile e direi fatale che, nuotando sott’acqua in apnea nell’ipnotica fissità dei fondali, io m’imbattessi, dopo Ferito a morte, nella leggenda di Colapesce, che ne è una specie di lontano prototipo. Mito e favola del ragazzo mezzo uomo e mezzo pesce mi arrivavano dalle azzurre profondità del mio Tirreno, e tirrenico più che greco e siculo io sentivo questo antico racconto. Dopo Croce, e Calvino, e Sciascia, che tra i moderni lo raccolsero e lo riscrissero ciascuno a suo modo, venne anche a me il desiderio di riprenderlo e raccontarlo a modo mio. L’occasione fu il compleanno di mia figlia che ancora non sapeva leggere e che dunque si trovava nella condizione ideale per ascoltare le favole che le inventavo. Mi stava a sentire con una specie di sognante rapimento, con due occhi d’ambra chiara che pendevano dalle mie labbra e accoglievano come oro colato ogni mia parola, e tutto, ogni minimo particolare, metteva in moto la sua intatta fantasia. Oh, se i miei lettori mi leggessero come lei mi ascoltava! Scrissi questa favola per lei, per farle immaginare la bellezza dello scenario sottomarino, e anche per prepararla – quando sarebbe stata in grado di farlo – alla lettura di Ferito a morte. Mi piaceva farle credere che anche io ero stato un po’ come Colapesce, e che se le mie mani e i miei piedi non erano forniti di membrane per meglio nuotare, le pinne di gomma potevano benissimo sopperire a questa mancanza. Volevo che quando fosse stata più grande capisse che se avevo scelto il mare come elemento essenziale del mio libro era perché nel mare avevo trovato in un primo momento la beata regressione dell’infanzia (e una tregua al dolore), il liquido amniotico della mia ispirazione, il richiamo perenne e insostituibile dell’Altrove, del Regno Sconosciuto. E poi, man mano anche lei crescendo avrebbe potuto riconoscere nel mare il luogo della felicità, della “bella giornata” e della ferita che essa nasconde. E che cos’è, nel racconto di Colapesce, la colonna infranta che lui scopre, sostegno precario dell’instabile terra meridionale sempre sottoposta a vessazioni naturali (terremoti, eruzioni) e umane (reucci dispotici e altre autorità ugualmente oppressive)? Forse mia figlia crescendo avrebbe sorriso riconoscendo nei cortigiani del re – caricaturale imitazione di quelli come il Polonio shakespeariano – il conformismo degli intellettuali nei confronti del potere, e il loro asservimento oggi ancor più visibile. E avrebbe condannato non solo la loro vigliaccheria, ma anche quella di quel re che abbandona il suo popolo nel momento del pericolo e si mette in salvo sulla nave. Quel re tagliatore di teste, così simile a tanti re della storia di Borbonia, della nostra Napoli sfortunata. E avrebbe forse capito che il finale consegnarsi di Colapesce alle profondità vertiginose del mare è una scelta di libertà e di indipendenza che molto spesso, nell’Italia di oggi, siamo tentati di fare. E infine, se mia figlia avesse avuto in avvenire qualche inclinazione letteraria e avesse saputo leggere criticamente un libro, si sarebbe accorta che questa piccola favoletta a lei dedicata segna nel complesso dell’opera del suo papà il passaggio dallo stile elaborato e dalla struttura dei primi libri (quell’altenarsi di polifonia e monologo interiore) a una scrittura più diretta e lineare, più semplice ma non meno meditata, che inizia con Fiori giapponesi e prosegue con La neve del Vesuvio, Capri e non più Capri e i libri venuti dopo. Quella scrittura che proprio i suoi occhi attenti e il suo ascolto innocente mi avevano suggerito.
Ean / Isbn
978888750100
Pagine
104
Data pubblicazione
01/01/1997