Come colmare la nostra disinformazione…

Scritto da Il Mare
12 novembre 2012
Più di centocinquanta migranti, la loro vita aggrappata a un vecchio camion, nel viaggio della speranza lungo l’antico percorso carovaniero che attraversa il Niger e congiunge l’Africa centrale e occidentale alla Libia. Quella che apre il servizio è una fotografia, forse la più d’impatto, del reportage Trasmigazioni realizzato del giovane fotoreporter, 37 anni, Alfredo Bini, pubblicato e diffuso dai principali media internazionali oltre che essere premiatissimo in diversi concorsi internazionali di fotogiornalismo.
L’ha scattata nel 2009 nel deserto dei deserti, il Teneré, nei pressi dell’oasi nigeriana di Dirkou, da dove hanno luogo le partenze per la Libia. Non tutti riusciranno a partire, molti, quelli rimasti senza un soldo nelle tasche resteranno “stranded”, intrappolati, ridotti praticamente in schiavitù, sperando di racimolare quel tanto che serve a proseguire il viaggio.
Alfredo non è conosciuto al grande pubblico anche perché non è legato ad alcun  giornale. Va dove lo porta la sua passione per la fotografia, peraltro recente. È rappresentato da una agenzia abbastanza consolidata e i suoi clienti sono i principali magazine e giornali internazionali. È vero che sono pochi anni che “vive’ solo di fotografia ma la passione c'è fin da quando era bambino ed è sfociata nel fotogiornalismo grazie all’aver incontrato Tiziano Terzani che viveva in un paese dove passava molto tempo. È così che dopo Trasmigazioni, leggendo un articolo sulla situazione dell’agricoltura in Etiopia e sul fenomeno, ancora adesso pochissimo conosciuto, del land grabbing, ne abbiamo parlato a fine ottobre con il servizio Land Grabbing, una nuova forma di colonialismo?  è andato in Etiopia per rendersi conto di come i contadini vengono espropriati delle loro terre. Il reportage che ha realizzato con un portfolio di venti fotografie, è il primo di un vasto progetto per documentare l’accaparramento da parte di multinazionali o addirittura di stati di terreni agricoli, i più fertili nel mondo oggetto di una vasta pianificazione di sviluppo esclusivamente di monocolture, con la conseguente radicale distruzione di ogni pratica agricola tradizionale.

Pratiche che riducono le risorse dell’acqua, stravolgono le tecniche della lavorazione dei terreni, impoveriscono i contadini con la conseguenza che sopravvivono soltanto grazie agli aiuti dei programmi alimentari internazionali. A causa della crisi delle derrate alimentari del 2007 e 2008, gli stati della penisola araba, hanno volto il loro sguardo verso l’Etiopia, il paese più sfruttato negli “affitti ” dei terreni agricoli, approfittando delle concessioni garantite dal governo e dai programmi d’aiuto e di finanziamenti della Banca Mondiale e del Fondo Monetario Internazionale. In questo modo lo stesso governo etiope e numerosi investitori si sono lanciati investendo in agricoltura. “L’argomento mi era sconosciuto, spiega Alfredo, me ne sono interessato leggendo un articolo sul problema degli aiuti umanitari che riceve l’Etiopia e al contempo dell’esportazione di derrate agricole destinate ala produzione di biofuel.
Per saperne di più sono andato prima in Arabia Saudita, dove si svolgeva una importante conferenza sull’agricoltura, che è uno dei paesi più coinvolti perché ha alcuni degli gli allevamenti di bestiame più grandi del mondo, quindi devono importare cereali per nutrirli. Il governo saudita negli anni 70 ha fatto una campagna per l'incentivazione della produzione di cereali e degli allevamenti, causando una produzione molto spinta ma fuori mercato perché sostenuta dagli incentivi del governo. Per coltivare nel deserto occorre acqua, che in quei luoghi è fossile, quindi non si rigenera, dopo una ventina di anni hanno capito che il progetto non era sostenibile, e hanno iniziato a ridurre le coltivazioni. Nel frattempo però si erano sviluppate realtà aziendali che su questa facevano affidamento.
Ad esempio un allevamento di bestiame integrato con circa 100mila capi  in mezzo al deserto, il più grande del mondo, copre la filiera della produzione del latte e della carne a 360 gradi. Metà della produzione dei cerali è prodotta da loro, l’altra metà viene importata. Con queste informazioni preliminari a novembre del 2011, continua Bini, sono partito per l’Etiopia, che non conoscevo per nulla, dove si è chiuso il cerchio di quello che avevo visto in Arabia Saudita. In un paese dove circa 8 milioni di persone ricevono aiuti umanitari, la maggior parte delle aziende agricole che ho visitato esportano i loro prodotti negli Emirati Arabi. Prima di partire ho provato a parlare di Land Grabbing con alcuni direttori e photo editor, facendo una gran fatica per spiegare di cosa stavo parlando, senza le foto è veramente impossibile. Così sono partito senza avere nessun tipo di affidamento o di copertura di un giornale, è stato un mio investimento.
Quando mi trovo in quei paesi, prosegue, dove non conosco nessuno, prima di tutto mi preoccupo di trovare degli assegnati per documentare le attività di organizzazioni delle agenzie delle Nazioni Unite. Con loro, oltre a guadagnare dei soldi, mi muovo con facilità, e ho la possibilità di girare il paese e rendermi conto di come girano le cose. A differenza di un giornalista armato soltanto di un taccuino e di una penna, un fotografo, con tutto il suo armamentario, non passa inosservato, quindi deve stare molto attento a come si muove. Alcune realtà sono inavvicinabili, vai a vedere delle situazioni di land grabbing dove ci sono interessi di milioni di dollari. In questi casi i terreni di solito sono affittati per 90 anni per la maggior parte ad aziende straniere.
Nelle zone più remote l’affitto di un ettaro per un anno è intorno ai 15 dollari, a volte anche 2 o 3. In quelle meno remote intorno a 50 o 60. Ho visto diversi compound dove si producono canna da zucchero, riso, palma d’olio, cereali. Ho visto altre realtà dove si producono ortaggi al 90% destinati all’esportazione. Ho visitato, e conclude il suo racconto, anche la più grande azienda al mondo che produce rose, una rosa su 4 che troviamo a Roma è prodotta da questa azienda e la maggior parte le produce in Kenia. Però sta delocalizzando perché sembra che in Etiopia ci siano condizioni climatiche più favorevoli e anche perché in Kenia sono iniziate proteste per le condizioni di lavoro e i bassi salari.”

Ma sono le fotografie che valgono più di mille parole, come si vede con la deforestazione che avviene per facilitare la preparazione dei terreni per le piantagioni di palme da olio o di canna da zucchero. Il progetto interessa trecentomila ettari e comprende la realizzazione di un canale per prelevare l’acqua destinata all’irrigazione da un fiume. L’area interessata è confinante con un parco nazionale reputato il secondo più grande luogo di sosta in Africa per le grandi migrazioni degli animali. Nella seconda si mettono a dimora fittoni di canna da zucchero per la quale è prevista una piano di espansione di ventimila ettari, tutti destinati alla produzione di biocarburanti. Un giovane lavoratore prepara i peperoni che saranno spediti negli Emirati per rifornire esclusivamente la catena degli hotel Hilton.

Dopo due mesi il nostro Alfredo torna a casa e qui cominciano i problemi. “Dopo avere selezionato una serie di venti tra le le centinaia di fotografie che ho scattato, spiega, ho montato il servizio e ho iniziato a chiamare i giornali ponendo la classica domanda: vi interessa questo servizio? Un lavoro che mi ha impegnato esclusivamente più di due mesi, lo stesso tempo che ho impiegato a realizzare il reportage! Ho contattato decine di giornali, spendendo un patrimonio di telefono. È stato veramente un casino riuscire a pubblicarlo, probabilmente perché non ritenevano buone le mie foto, o perché l’argomento non era interessante, non lo so. Dopo tanta fatica soltanto per l’amichevole interessamento di un redattore che ha compreso l’importanza della storia sono riuscito ad ottenere una doppia pagina sulla La Lettura, l’inserto del Corriere, e la pubblicazione su Corriere.it. All’estero la BBC se n’è subito interessata, è stata da traino per la diffusione nel mondo del web in una serie di siti in internet che si occupano dell’argomento, tra cui quello dell’associazione della politica estera del governo USA, poi Jeune Afrique e Africa report. La mia più grande soddisfazione è vedere che Google mi mette ai primi posti quando si fa una ricerca sul land grabbing. Però, nonostante il mio gran lavoro di autopromozione, ad oggi sono riuscito a malapena a coprire la metà delle spese che ho sostenuto. Il problema è che tutta l'industria dell'informazione è in crisi. Il giornalismo in generale, quello che conoscevamo negli anni 50/60/70 non esiste più ed è questo che mi spinge a fare delle riflessioni sul senso di continuare una professione che pare aver perso la capacità critica d’incidere sulle abitudini delle persone. L’uniformità di linguaggio alla quale ci stiamo assuefacendo vanifica gli sforzi e rende difficile far passare messaggi contro corrente. Le difficoltà che incontriamo nel pubblicare i reportage sono legate più alla preparazione delle persone che lavorano nell’industria del giornalismo che non ad una effettiva valutazione e ponderazione dei contenuti. Se sei amico di un direttore o di un giornalista importante riesci ad ottenere spazi che altrimenti ti sarebbero preclusi ed è esattamente quello che è successo al Corriere con il Land Grabbing sul supplemento Lettura. Questo atteggiamento oltre che frustrante è a mio avviso concausa della grave crisi che sta attraversando il giornalismo. Le redazioni, assuefatte agli stimoli che ricevono solo dagli “amici” referenti e chiudendosi sempre più alle nuove collaborazioni, hanno perso il contatto con la realtà ed è ovvio che poi la realtà si materializza con un disinteresse verso contenuti che hanno sempre meno sostanza. Comunque, conclude Bini, visto come è governato il mondo dei media con l’indifferenza che mostra verso queste problematiche, sto decidendo di lasciare il fotogiornalismo e di cercare altre strade per sostenete i miei progetti di reportage.”

Parlare di Land Grabbing significa anche vedere come le organizzazioni internazionali, vedi l’OMS e la FAO, siano sempre di più preoccupate per l’impatto che hanno gli allevamenti industriali di bestiame e lo sfruttamento delle terre coltivabili con l’uso intensivo di monocolture e conseguentemente sulla possibilità o meno di nutrire il mondo. Il direttore esecutivo dell’International Water Institute di Stoccolma, recentemente ha dichiarato “Gli animali vengono nutriti a cereali, e anche quelli allevati a pascolo richiedono molta più acqua rispetto alla produzione diretta di grano per il consumo umano. Ma nei paesi sviluppati, e in parte in quelli in via di sviluppo, i consumatori richiedono ancora più carne [...]. Ma sarà quasi impossibile nutrire le future generazioni con una dieta sul genere di quella che oggi seguiamo in Europa occidentale e nel Nord America”.
Per comprendere in pieno il senso di queste dichiarazioni vi invitiamo a leggere l’interessante e istruttivo dossier di una cinquantina di pagine dal titolo Allevare gli animali: le conseguenze sull’ambiente e sulle persone. Scaricabile dal sito www.eat-ing.net è un’iniziativa/inchiesta di educazione ambientale rivolta alle scuole secondarie di primo e secondo grado e caratterizzata da un focus sulla sostenibilità alimentare. Un progetto finanziato da Fondazione Cariplo e sviluppato da Fondazione Eni Enrico Mattei in collaborazione con il Centro di Studi per la Storia dell’Editoria e del Giornalismo.
Intanto ve ne proponiamo un piccolo stralcio che sottolinea i due grandi temi legati agli allevamenti di bestiame, al consumo dell’acqua e, importantissimo, il grande impatto sui cambiamenti climatici e sull’effetto serra.
Dopo un’attenta lettura delle cinquanta paginette chissà poi quanti di voi si convinceranno a diventare vegetariani…
Il 70% dell’acqua utilizzata sul pianeta è consumato dalla zootecnia e dall’agricoltura (i cui prodotti servono per la maggior parte a nutrire gli animali d’allevamento). Gli allevamenti consumano una quantità d’acqua molto maggiore di quella necessaria per coltivare soia, cereali, o verdure per il consumo diretto umano. Una vacca da latte beve 200 litri di acqua al giorno, 50 litri un bovino o un cavallo, 20 litri un maiale e circa 10 una pecora.È stato calcolato che per produrre cinque chili di carne bovina serve tanta acqua quanta ne  consuma una famiglia media in un anno. Per un chilo di proteine animali occorre un volume d’acqua 15 volte maggiore di quello necessario alla produzione della stessa quantità di proteine vegetali. L’aumento del consumo di prodotti animali ha anche considerevoli ripercussioni ambientali e ha un ruolo significativo nell’ambito dei cambiamenti climatici, essendo responsabile del 18% delle emissioni atmosferiche mondiali del gas a effetto serra. Questa quota è addirittura superiore alle emissioni generate dai trasporti in tutto il mondo!! In particolare, l’allevamento produce il 9% delle emissioni globali di anidride carbonica, ed è responsabile anche del 37% del metano complessivamente prodotto dalle attività dell’uomo: questa quota è emessa per lo più dai ruminanti e dalla fermentazione della cellulosa che avviene nei loro stomaci. Il metano è 23 volte più potente dell’anidride carbonica nel surriscaldare la Terra. Inoltre, la produzione animale contribuisce per il 65% al protossido d’azoto che complessivamente l’uomo introduce in atmosfera (N2O ha un potenziale di surriscaldamento che è 296 volte più forte della CO2!). La maggior parte del protossido emesso dagli allevamenti deriva dai reflui zootecnici, ossia dal letame e dal liquame prodotto dai capi di bestiame, e dai fertilizzanti distribuiti sui suoli coltivati per nutrire gli animali allevati: infatti si può dire che la zootecnia sia responsabile del 75-80% delle emissioni di ammoniaca legate all’attività antropica, che causano piogge acide e acidificazione degli ecosistemi. In zootecnia, il passaggio in atmosfera dell’ammoniaca è in particolare provocato dall’applicazione del letame sui campi coltivati.
Entro il 2025 oltre il 60% della popolazione mondiale vivrà in condizioni di carenza idrica. Con la popolazione mondiale avviata a toccare i nove miliardi di persone nel 2050 su quali riserve idriche si potrà contare?
Il settore zootecnico contribuisce significativamente al consumo di acqua e al suo inquinamento in modo sia diretto che indiretto: l’8% del consumo idrico mondiale è riguarda il settore zootecnico, che utilizza acqua principalmente allo scopo di irrigare i campi coltivati per produrre mangimi.
Per ottenere 1 kg di manzo servono 15 mila litri d'acqua! Per 1 kg di pollo, 3.500 litri, mentre per la produzione di cereali di acqua ne serve di meno, 3400 litri per il riso, 2 mila per la soia, 1400 per il grano, 900 per il mais, 500 per le patate…
Ma il settore dell’allevamento risulta anche tra i primi responsabili dei numerosi cambiamenti ambientali che negli ultimi decenni si stanno registrando sia a livello locale che globale. La domanda di prodotti d’allevamento è in aumento, a causa della crescita demografica e dei cambiamenti nelle preferenze alimentari: le previsioni, infatti, parlano di una produzione di carne e latte raddoppiata dal 2000 al 2050. Per la salute dell’ambiente questo rappresenta un pericolo, perché comporterà un ulteriore peggioramento delle condizioni ambientali. Per valutare in modo completo gli impatti che l’allevamento esercita sull’ambiente è necessario prendere in considerazione sia gli aspetti ambientali diretti, cioè strettamente correlati all’attività propria della produzione animale, sia quelli indiretti, legati ad esempio alle attività agricole necessarie per nutrire i capi d’allevamento. I processi di inquinamento legati alla produzione animale sono complessi e difficili da controllare, poiché, se da un lato l’allevamento industriale presenta forme di inquinamento “acute”, puntiformi e facilmente riconoscibili, le molteplici attività che ruotano intorno alla produzione animale (produzione agricola, industria chimica, produzione e gestione di rifiuti) sono in qualche modo fonti diffuse di inquinamento e generano impatti “cronici”, quindi individuabili solo sul lungo periodo.
Gli impatti ambientali significativi connessi alla produzione animale riguardano la degradazione del suolo, i cambiamenti climatici e l’inquinamento atmosferico, l’uso delle risorse idriche e il loro processo di contaminazione e, più in generale, la perdita di biodiversità. Vediamo nel dettaglio qual è la situazione attuale e quali sono gli impatti ambientali da ridurre Venendo meno i pascoli, cambiano anche le fonti di alimentazione destinate all’allevamento: circa l’80% della produzione di cereali mondiale, oggi, viene utilizzata come mangime negli allevamenti: i cereali, infatti, consentono agli animali di crescere più in fretta. L’agricoltura industrializzata, responsabile della produzione di questi cereali, ha trasformato i terreni alterando i fragili equilibri che regolano i diversi comparti ambientali. L'allevamento intensivo, ad esempio, distrugge il suolo perché la coltivazione di cereali per mangimi richiede moltissimo terreno coltivabile. L'agricoltura può contribuire alla desertificazione sia direttamente, tramite pratiche agricole dannose come la coltivazione intensiva e un uso smodato di acqua, sia indirettamente, quando la terra viene deforestata per creare nuove terre coltivabili per nutrire il bestiame. Il cambio di destinazione d’uso dei suoli è, infatti, un altro fattore determinante nell’alterazione degli ecosistemi: la deforestazione ha trasformato gran parte della foresta amazzonica dell’America Latina (un’estensione pari a due volte quella del Portogallo) in pascolo e in campi coltivati per nutrire i capi allevati. Tra il 1997 e il 2003 il volume dell'esportazione di bovini dal Brasile è aumentato di oltre cinque volte; l'80% di questo incremento di produzione ha avuto luogo proprio nella foresta amazzonica. Dopo pochi anni di sfruttamento intensivo dei pascoli e dei campi creati, le aree deforestate vanno incontro a un processo irreversibile di desertificazione in cui la terra inaridita non produce più come prima. Quindi, diventa necessario abbattere una nuova porzione di foresta, in un ciclo continuo che degrada sempre di più l'ambiente…