Dimmi cosa mangi e ti farò l'impronta idrica. Un mare d’acqua nel nostro cibo.

Scritto da Il Mare
27 maggio 2013
In un mondo di risorse limitate porsi degli interrogativi riguardo i nostri stili di vita e i nostri consumi è non solo auspicabile, ma anche necessario. L’Italia è il terzo paese Importatore netto di acqua virtualeal mondo. Cosa significa? Perché è importante parlare di acqua e cibo? Per produrre un chilogrammo di caffè tostato sono necessari 18900 litri d’acqua, 15400 per un chilo di carne di manzo, per la pasta secca circa 1.924 litr. Poco minore è l’impronta idrica di una pizza da 725 grammi: 1.216 litri. Con acqua virtuale” si intende proprio questo: il quantitativo di acqua necessario a produrre cibi, beni e servizi che consumiamo quotidianamente. Applicando questo concetto, scopriremo che consumiamo molta più acqua di quella che vediamo effettivamente "scorrere" sotto i nostri occhi. Non riusciamo a percepirla come tale semplicemente perché è acqua che letteralmente “mangiamo”, contenuta in maniera invisibile nel cibo che consumiamo e che proviene da ogni parte del mondo. Il saggio  L’acqua che mangiamo, cos’è l’acqua virtuale e come la consumiamospiega, con un approccio multidisciplinare, la problematica idrica e le sue implicazioni economiche, sociali e politiche. È il risultato della ricerca svolta da Marta Antonelli e Francesca Greco, due giovani dottorande del professor Tony Alland presso il King’s College di Londra, e fanno parte del London Water Research Group. Il messaggio di questo lavoro è per chi vuole agire idealmente da ponte tra chi svolge ricerca accademica e scientifica e chi si interessa alle grandi questioni della sostenibilità ambientale. Offre molteplici chiavi di lettura attraverso il lavoro dei più grandi esperti italiani e mondiali. Tra questi segnaliamo, per la prima volta pubblicati in Italia, i contributi di Tony Allan, ideatore del concetto di “acqua virtuale” e vincitore dello Stockholm Water Prize 2008, e di Arjen Hoekstra, che ha elaborato il concetto di “impronta idrica” e fondato il Water Footprint Network.
“Nel cibo che mangiamo c’è una mare di acqua virtuale, spiegano le due dottorande, o racchiusa in un hamburger o bevuta in una tazzina di caffè. L’acqua che usiamo ogni giorno per uso domestico, quella che vediamo scorrere dai rubinetti è pari a 157 litri. Ne mangiamo invece 3500, il 90 per cento dell’acqua che usiamo è nascosta dietro al cibo. “In Italia c’è un buco informativo profondissimo, affermano le giovani curatrici del libro, all’estero si parla di acqua virtuale da una quindicina d’anni, lo sanno le casalinghe che fanno la spesa, e soprattutto le multinazionali che lavorano per abbattere gli sprechi nei processi produttivi. Nei paese nordici hanno mappato i loro cibi per spiegare quanta acqua c’è nel boccone che ingeriscono. L’acqua virtuale non è visibile, ma la cena tipo di un vegetariano vale 1500 litri d’acqua mentre quella di chi mangia carne vale ben oltre il doppio, 4100 litri, soprattutto se si tratta di carne rossa proveniente da animali allevati. Riappropriarsi del valore dell’acqua è l’unico modo per porre rimedio al costante aumento demografico e all’aumento della crisi idrica, si migliora facendone un uso consapevole, perché non tutta l’acqua è uguale.
È opportuno utilizzare soprattutto l’acqua “verde”, quella da fonte piovana e quella “blu” rinnovabile, da laghi, fiumi, falde. Con la politica si può gestire l’acqua pubblica, quella poi utilizzata nelle nostre case, sforzi maggiori però vanno fatti dalle multinazionali che dovrebbero aggiungere sulle etichette dei loro prodotti l’impronta idrica oltre alla quantità di grassi e proteine. Alcune aziende italiane come la Barilla per la pasta e la Mutti per le conserve di pomodoro lo stanno già facendo come è descritto nell’ultimo capitolo del saggio dedicato a come si è calcolata l’acqua virtuale proprio nelle produzione della pasta Barilla, delle conserve Mutti, di una bottiglia di vino e dei prodotti alimentari a marchio DOP, DOC e DOCG.
La sfida sta nel migliorare la qualità dell’acqua che consumiamo, perché mangiando l’acqua di altri rischiamo di creare povertà senza saperlo.”
Il concetto di “acqua” virtuale, alla base dell’elaborazione della cosìddetta “impronta idrica” è stato introdotto nel 2003 in analogia con quello di “impronta ecologica” sviluppato a metà degli anni ’90. L’impronta idrica di un individuo,, di una comunità o di una azienda è definita come il volume totale di acqua utilizzata per produrre beni e servizi. L’Italia ha un’impronta idrica del consumo pro capite annuo pari a 2330 metri cubi, contro una media di 1240 metri cubi ed è il terzo paese importatore netto di acqua virtuale al mondo dopo il Giappone e Messico.
“L’Acqua che mangiamo” viene pubblicato in occasione dell’anno internazionale 2013 dedicato alla Water Cooperation, importante appuntamento se si pensa che molte nazioni non potranno mai diventare autosufficienti nella produzione del proprio fabbisogno alimentare. Soltanto con la cooperazione internazionale si potranno raggiungere soddisfacenti obiettivi di sicurezza idrica, e quindi alimentare.

Anche pensando ai paradossi del cibo: 36 milioni di persone muoiono ogni anno per mancanza di cibo, mentre 29 ne muoiono per eccesso, per problemi legati all’obesità. 148 milioni sono i bambini denutriti e 155 quelli in sovrappeso. Un miliardo di persone non ha accesso all’acqua potabile e altrettante sono sotto alimentate, mentre ci sono tre miliardi di bestiame da allevamento responsabili del 50 per cento delle emissioni di CO2 legate all’agricoltura. Un terzo della produzione globale di cibo serve per alimentare il bestiame e il loro fabbisogno di acqua cresce a ritmi vertiginosi ogni anno.