In un mondo di risorse limitate
porsi degli interrogativi
riguardo i nostri stili
di vita e
i nostri consumi è non
solo a
us
picabile, ma anche necessario.
L’Italia è
il terzo paese
Importatore netto di
“acqua
virtuale” al mondo
. Cosa significa? Pe
rc
hé è i
mporta
nte parlare di
acqua e cibo? Per produrre un
chilogrammo di caffè tostato sono necessari 18900 litri d’acqua, 15400 per un chilo di carne di manzo, per la pasta secca
circa 1.924 litr
. Poco minore è
l’impro
nta idrica di una pizz
a da 725 gra
mmi: 1.216 litri
. Con “acqua
virtuale” si intende proprio questo
: il quantitativo di ac
qua necessario a produrre c
ibi
, be
ni e servizi
che consumiamo quotidianamente.
Applicando questo concetto,
scopriremo che consumiamo molta più acqua di quella c
he
vediamo e
ffett
iva
me
nte "scorr
ere" sotto i nostri occhi
. Non riusciamo a percepirla come tale
semplicemente perché è acqua
che le
ttera
lmente “
ma
ngi
amo”, co
nten
uta i
n mani
era invisi
bile
nel cibo
che consumiamo e
che proviene da ogni parte del mondo. Il saggio
“L’acqua che mangiamo, cos’è l’acqua virtuale e come la consumiamo”
spiega,
con un approccio multidisciplinare, la problematica idrica e
le sue i
mplic
az
io
ni eco
no
mic
he, soc
iali e politiche
. È il risultato della ricerca svolta da Marta Antonelli e Francesca Greco, due giovani dottorande del professor Tony Alland presso il King’s College di Londra, e fanno parte del London Water Research Group. Il messaggio di questo lavoro è per chi vuole agire idealmente da ponte
tra chi svolge
ricerca accademica e scie
ntif
ica e chi
si interessa alle grandi
quest
io
ni de
lla sosten
ibilità ambie
nt
ale. Offre molteplici chiavi di lettura attraverso
il lavoro dei più grandi esperti ital
iani e mo
ndi
ali. T
ra
questi seg
naliamo, per l
a pr
im
a volta pubblicati in Italia,
i contributi di Tony Allan
, ideatore del concetto di
“acqua virtuale” e v
incitore del
lo Stock
ho
lm Wat
er Prize 2008
, e di Arjen
Hoekstra, che ha elaborato
il concetto di
“impronta
idrica” e fondato
il Water
Footprint Network.
“Nel cibo che mangiamo c’è una mare di acqua virtuale, spiegano le due dottorande, o racchiusa in un hamburger o bevuta in una tazzina di caffè. L’acqua che usiamo ogni giorno per uso domestico, quella che vediamo scorrere dai rubinetti è pari a 157 litri. Ne mangiamo invece 3500, il 90 per cento dell’acqua che usiamo è nascosta dietro al cibo. “In Italia c’è un buco informativo profondissimo, affermano le giovani curatrici del libro, all’estero si parla di acqua virtuale da una quindicina d’anni, lo sanno le casalinghe che fanno la spesa, e soprattutto le multinazionali che lavorano per abbattere gli sprechi nei processi produttivi. Nei paese nordici hanno mappato i loro cibi per spiegare quanta acqua c’è nel boccone che ingeriscono. L’acqua virtuale non è visibile, ma la cena tipo di un vegetariano vale 1500 litri d’acqua mentre quella di chi mangia carne vale ben oltre il doppio, 4100 litri, soprattutto se si tratta di carne rossa proveniente da animali allevati. Riappropriarsi del valore dell’acqua è l’unico modo per porre rimedio al costante aumento demografico e all’aumento della crisi idrica, si migliora facendone un uso consapevole, perché non tutta l’acqua è uguale.
È opportuno utilizzare soprattutto l’acqua “verde”, quella da fonte piovana e quella “blu” rinnovabile, da laghi, fiumi, falde. Con la politica si può gestire l’acqua pubblica, quella poi utilizzata nelle nostre case, sforzi maggiori però vanno fatti dalle multinazionali che dovrebbero aggiungere sulle etichette dei loro prodotti l’impronta idrica oltre alla quantità di grassi e proteine. Alcune aziende italiane come la Barilla per la pasta e la Mutti per le conserve di pomodoro lo stanno già facendo come è descritto nell’ultimo capitolo del saggio dedicato a come si è calcolata l’acqua virtuale proprio nelle produzione della pasta Barilla, delle conserve Mutti, di una bottiglia di vino e dei prodotti alimentari a marchio DOP, DOC e DOCG.
La sfida sta nel migliorare la qualità dell’acqua che consumiamo, perché mangiando l’acqua di altri rischiamo di creare povertà senza saperlo.”
Il concetto di “acqua” virtuale, alla base dell’elaborazione della cosìddetta “impronta idrica” è stato introdotto nel 2003 in analogia con quello di “impronta ecologica” sviluppato a metà degli anni ’90. L’impronta idrica di un individuo,, di una comunità o di una azienda è definita come il volume totale di acqua utilizzata per produrre beni e servizi. L’Italia ha un’impronta idrica del consumo pro capite annuo pari a 2330 metri cubi, contro una media di 1240 metri cubi ed è il terzo paese importatore netto di acqua virtuale al mondo dopo il Giappone e Messico.
“L’Acqua che mangiamo” viene pubblicato in occasione dell’anno internazionale 2013 dedicato alla Water Cooperation, importante appuntamento se si pensa che molte nazioni non potranno mai diventare autosufficienti nella produzione del proprio fabbisogno alimentare. Soltanto con la cooperazione internazionale si potranno raggiungere soddisfacenti obiettivi di sicurezza idrica, e quindi alimentare.
Anche pensando ai paradossi del cibo: 36 milioni di persone muoiono ogni anno per mancanza di cibo, mentre 29 ne muoiono per eccesso, per problemi legati all’obesità. 148 milioni sono i bambini denutriti e 155 quelli in sovrappeso. Un miliardo di persone non ha accesso all’acqua potabile e altrettante sono sotto alimentate, mentre ci sono tre miliardi di bestiame da allevamento responsabili del 50 per cento delle emissioni di CO2 legate all’agricoltura. Un terzo della produzione globale di cibo serve per alimentare il bestiame e il loro fabbisogno di acqua cresce a ritmi vertiginosi ogni anno.