Ancora uno strepitoso successo per la
Soprintendenza del Mare della Regione Siciliana diretta dall’archeologo subacqueo Sebastiano Tusa. Alla già ricca collezione di rostri di bronzo se ne sono aggiunti altri due “pescati” a circa 80 metri di profondità anche questi nelle acque delle Isole Egadi, al largo di Capo Grosso dell’isola di Levanzo. Sale così a undici il totale di quelli recuperati nei luoghi teatro della battaglia navale delle Egadi che concluse la Prima Guerra Punica vinta dai romani il 10 marzo del 241 a. C. Non solo rostri, il “bottino” si è arricchito anche di un elmo romano di tipo Montefortino, l’ottavo della serie, e di quattro anfore greco italiche. Gli ultimi arrivati sono sicuramente romani, hanno le iscrizioni dei nomi dei questori Papelio e Pulicio e le decorazioni di vittoria alata e di elmo piumato.
Anche un dodicesimo è stato individuato, fotografato, localizzato e georeferenziato: si trova, ancora oggi dall’aspetto minaccioso, su una distesa sabbiosa a circa 80 metri di profondità. Causa il maltempo non c’è stato il tempo per issarlo a bordo: bisognerà attendere ancora
un anno per aggiungerlo alla già ricca collezione. Quella appena conclusa, durata 45 giorni, è l’ottava campagna di ricerche del progetto Archeorete Egadi, realizzato grazie alla collaborazione della fondazione americana RPM Nautical diretta da George Robb jr che dal 2005 mette a disposizione la Hercules, la nave oceanografica a posizionamento dinamico (DPS) dotata di sistemi di ricognizione elettroacustica e visive di ultima generazione.
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A sn Jeff Royal con Sebastiano Tusa |
In questa ultima campagna, iniziata il 14 giugno 2013, è stato utilizzato, per la prima volta in Italia, un particolare sonar a scansione laterale montato su una particolare struttura metallica che permette di lavorare agevolmente in profondità per tracciare, con il suo esclusivo sistema di scansione a 360°, ancor meglio e con una precisione millimetrica i fondali. L’innovativo strumento è stato portato in Sicilia da John Henderson del Dipartimento di Archeologia dell’Università di Nottingham con la collaborazione dell’Ingegnere Geofisico Brian Abbott della Nautilus Marine Group.
È un team italo americano che conduce le ricerche con la direzione di Tusa e di Jeff Royal e la consulenza di William Murray (University of South Florida), e dei coordinatori tecnici Stefano Zangara, Salvatore Palazzolo e Francesca Oliveri della Soprintendenza del Mare.
Va dato merito a chi, e sono molti, collabora alle ricerche: la Capitaneria di Porto di Trapani, i sommozzatori della Guardia Costiera, la Soprintendenza per i Beni culturali di Trapani, l’Area Marina Protetta delle Egadi, la Shipping Agency di Luigi Morana, e la marineria locale, con i diving, i subacquei e l’Associazione Culturale Tempo Reale.
Fino ad oggi nelle otto campagne di ricerche iniziate nel 2005, è stato esplorato appena il 15% di quei fondali marini che ancora conservano chissà quanti e quali reperti, mute testimonianze di quell’epico scontro tra romani e cartaginesi. “C’è ancora molto da esplorare – commenta Sebastiano Tusa a cui si devono questi risultati – e, ne siamo certi, solo facendo una semplice proporzione incrociando le dita, tanto da recuperare. Diamo tempo al tempo, e poi dobbiamo pur lasciare qualcosa a chi continuerà le ricerche dopo di noi!
Anche perché con la convezione che abbiamo stipulato con la fondazione americana, la Hercules è a disposizione circa 45 giorni per stagione. E poi ci tengo a sottolineare che tutto ciò per noi è a costo zero! In cambio delle loro collaborazione la RPM Nautical ha soltanto il diritto a pubblicare, e sempre insieme a noi, i risultati delle ricerche. Hanno la loro base a Malta, dove svolgono la manutenzione di routine della nave, e sono impegnati in altre campagne simili alla nostra nell’Adriatico, in Albania, Montenegro e Croazia.”
“Considerando e studiando i materiali che abbiamo già recuperato – aggiunge Sebastiano – ci siamo chiesti come mai abbiamo trovato in uno spazio molto ristretto un solo rostro punico e mentre tutti gli altri sono romani?
L’ipotesi, tutta da verificare con ulteriori ricerche, è che probabilmente in quel caso i romani le abbiano prese! In questo piccolo spazio ci fu una sorta di scaramuccia, visto che le battaglie navali di quei tempi avvenivano quasi come duelli, dei corpo a corpo come nelle battaglie terrestri. Potremmo essere incappati in una zona che in quel preciso momento è stata favorevole ai cartaginesi e che un piccolo gruppo di triremi romane si sia trovato in difficoltà per un repentino cambio di venti. Oppure, molto più semplicemente, la circostanza si può spiegare immaginando che le triremi cartaginesi, pur colpite, siano andate alla deriva affondando poi in un luogo più lontano.”
A conclusione di questo breve incontro telefonico con il quale ci ha descritto i risultati dell’ultima campagna di ricerche, l’amico Sebastiano Tusa, nella sua veste di insegnante oltre che di direttore dell’unica in Italia Soprintendenza per il Mare si è lasciato andare a un piccolo sfogo a proposito del suo lavoro e della situazione in cui versano i Beni Culturali nel nostro Paese. Ci sentiamo in obbligo di riportarlo.
“Sto creando una scuola di archeologia subacquea con l’Università di Palermo. Quando ho insegnato a Trapani ho formato tanti giovani archeologi che ora sono in giro per il mondo. Ma il vero problema è che in Italia c’è un blocco, una cesura generazionale perché nella pubblica amministrazione non si fanno più concorsi per il ricambio, non si formano più i quadri.
Noi formiamo dei giovani ma le PA non li assorbono ed è un dramma in tutti i campi non solo nell’archeologia. Non abbiamo i ricambi che dovrebbe avvenire almeno ogni 5 o 6 anni mentre sono 20 anni che non entra più nessuno. Quando i quadri della mia generazione andranno in pensione, da chi saranno sostituiti? La responsabilità è della politica: abbiamo fatto autostrade inutili, opere inutili, sperperato soldi che invece andavano investiti nell’unica e grande risorsa che abbiamo: i beni culturali, la nostra storia.
Per il secondo semestre del 2013 è stato stabilito e scritto che ci assegnano la metà dei finanziamenti destinati alla manutenzione delle aree archeologiche e così via. Come facciamo? è stata la domanda. Arrangiatevi, la risposta! Alle Soprintendenze, come quella che ho il peso di dirigere, sono addossate enormi responsabilità. Con quali mezzi potremo gestire il nostro immenso patrimonio?”
A cura di Maurizio Bizziccari
Ringraziamo Salvo Emma per le fotografie
Ufficio Relazioni con il Pubblico
Il contesto storico-archeologico della battaglia delle Egadi
a cura del Servizio Soprintendenza per i Beni culturali e ambientali del Mare Regione Siciliana
Delle grandi battaglie dell’antichità quella che più di ogni altra ha avuto l’onore della cronaca per le interessanti scoperte archeologiche subacquee a essa attribuibili è quella delle Egadi. Il 10 marzo 241 a.C. un forte libeccio soffia sulla cuspide occidentale della Sicilia foriero di un epocale cambiamento politico per l’isola e per l’intero Mediterraneo facendo intravedere austera e vincente la fisionomia di Roma. La battaglia delle Egadi descritta da Polibio e da molti altri storici antichi conclude la lunga prima guerra punica grazie ad una svolta impressa dall’audace ammiraglio Lutazio Catulo che sblocca una situazione di stallo nella quale i due contendenti si erano trovati da tempo. I luoghi d’interesse archeologico pertinenti la battaglia si trovano lungo la costa rocciosa orientale dell’isola di Levanzo che si presenta ripida e omogenea tra la Cala Calcara e Capo Grosso fornendo un prezioso rifugio alla flotta romana invisibile a quella cartaginese che proveniva da Occidente (Marettimo). L’omogeneità costiera si trasferisce anche ai fondali che si presentano degradanti e rocciosi fino a raggiungere la spianata sabbiosa intorno ai cinquanta metri. Tuttavia, in prossimità del limite meridionale e settentrionale di questa scogliera il fondale si articola ed è lì che ancora resistono le vestigia romane in parte attribuibili alla battaglia delle Egadi e in particolare alla zona di ancoraggio della flotta romana di Lutazio Catulo che sconfisse i Cartaginesi. Vi sono, infatti, numerosi ceppi d’ancora in piombo, localizzati sui fondali rocciosi degradanti verso Nord, compresi tra i 20 ed i 30 metri (in un’area di oltre 500 metri quadri), a circa 100 metri dalla costa nello spazio di mare a ridosso della punta più settentrionale di Levanzo, caratterizzata dall’incombente mole di Capo Grosso a picco sul mare. I veri protagonisti di quel mortale attacco dovettero essere i rostri applicati alle trireme, nave da guerra tra le più diffuse nell’antichità dall’epoca greca arcaica, di probabile derivazione dalla pentecontera e progenitrice delle galere medievali e moderne. Si diffuse tra i Greci, i Fenici, i Cartaginesi e infine anche presso i Romani. Tre file di rematori sovrapposte, con i remi leggermente sfalsati tra loro, le davano una formidabile propulsione in battaglia agevolata anche dallo scafo filante con un rapporto lunghezza /larghezza ottimale che poteva raggiungere anche i 40 x 6 metri. Poteva navigare anche sospinta da una vela rettangolare. L’equipaggio nelle trireme più grandi poteva raggiungere i 200 uomini, di cui la maggior parte rematori e il resto fanti, arcieri e addetti la governo della nave. Era molto manovrabile e veloce raggiungendo anche gli 8 nodi. La sua arma letale era il rostro a tre fendenti taglienti e contundenti che si allungava a prua sul pelo dell’acqua. La trireme, lanciata a velocità sulle navi nemiche, determinava con il colpo del rostro squarci letale nelle navi nemiche o ne annullava la forza distruggendo le file di remi e le relative fiancate. Da quando la Soprintendenza del Mare ha intensificato le ricerche nell’area della battaglia sono venuti fuori ben dodici rostri a tridente diversi da quelli descritti dall’archeologa inglese Honor Frost, che hanno offerto la prova dell’esattezza del luogo dello scontro indicato nell’area a Nord di Capo Grosso di Levanzo. I rostri s’inserivano, coprendola, sull’intersezione di alcuni elementi lignei convergenti che erano il dritto di prua, la chiglia e le cinte basse. Erano assicurati alla parte lignea dello scafo mediante chiodi. La parte anteriore del rostro era costituita da ben tre fendenti laminari orizzontali rinforzati da un possente fendente verticale. Con questo micidiale multiplo fendente, scagliato con forza sulle fiancate delle navi nemiche, la nave da guerra dotata del rostro determinava l’ingovernabilità e l’affondamento di quella nemica grazie alle falle che generava.