La crociata per vietare i sacchetti di plastica è diventata negli ultimi anni una componente importante del movimento ambientalista tradizionale, e le ragioni di ciò non sono misteriose. Non solo è ben documentato che i sacchetti di plastica possono richiedere anni per decomporsi nelle discariche, ma sappiamo anche che possono ostruire le discariche, soffocare la vita marina e sono un incubo per i sistemi fognari. L’impatto negativo dei sacchetti di plastica è così estremo che molti paesi in tutto il mondo hanno preso provvedimenti per imporre tariffe o vietare l’uso dei sacchetti di plastica, una tendenza iniziata con il Bangladesh nel 2002 e proseguita da ultimo con il Kenya nel 2017. Il lungo racconto che segue Fabrizio Carbone lo ha scritto nel 1987 per la rivista Aqua. È ancora di estrema attualità. Lo riportiamo integralmente. Un grido improvviso. Qualcuno si sbraccia dal parapetto della motonave “Pascali” in navigazione venerdì 4 luglio scorso da Olbia a Civitavecchia e indica in mare un dramma che si e consumato nella spazio di un paio di minuti e che solo pochi hanno vissuto. Una tartaruga marina e finita con la testa e una delle zampe dentro a una busta di plastica lattiginosa e inerte e non e riuscita a liberarsi in tempo. Cosi e stata vista girare su se stessa, presa dal risucchio delle eliche, dal frangere dell'onda provocata dalla prua della nave. E con quel sacchetto soffocante addosso e scomparsa per sempre. Un dramma da poco, dirà qualcuno. Ma chi ha vista l’animale morire in quel modo ha provato dolore e rabbia impotente e non ha potuto fare a meno di restare a guardare verso l'orizzonte di un mare di sacchetti di plastica galleggianti: uno, due, anche tre ogni due secondi. Ovunque. La plastica è tra i sassi dei
ruscelli di montagna, viene lanciata giù dalle case che si affacciano sui fiumi delle grandi pianure del nord, e il più preciso indicatore delle piene autunnali: quando l’acqua si ritira restano tra i rami a riva solo strisce bianche gelatinose, bandiere nere e azzurre di inciviltà. Cosi la plastica arriva al mare,
naviga portata da venti, maree, correnti, mareggiate. Gia dal 1972 gli studiosi più attenti avevano lanciato allarmi preoccupati per la presenza di plastica in mare. Più tardi, nel 1979, uno studio estremamente accurato di Robert J. Morris dell’lstituto di scienze oceanografiche di Wormley, in lnghilterra, quantificava la presenza nel Mediterraneo di plastica con una densità di un massimo di dodici pezzi avvistati nella spazio di un minuto in una zona di mare 40 miglia a sud-ovest di Malta. Ma questa ricerca, presentata al convegno mondiale sui detriti marini del novembre ’84 a Honolulu, appare ormai superata da quelle compiute in questi ultimi mesi dal Wwf e dalla Lega Ambiente, da
bordo delle cosiddette golette verdi che hanno costeggiato l’Italia per analizzare la condizione dell'inquinamento dell'acqua. Gli ambientalisti imbarcati a Ventimiglia e scesi a Trieste hanno vista plastica galleggiare dappertutto. La plastica come strumento di morte per soffocamento, blocco dell'apparato digerente dei grandi Cetacei del Mediterraneo. Ci sono prove certe che indicano nella plastica la causa della morte di uno zifio (Ziphius cavirostris), un odontoceto che raggiunge i sette metri e mezzo di lunghezza, considerato abbastanza comune nel Mediterraneo anche se in realtà e molto difficile vederlo in mare aperto. “Lo zifio fu trovato nel maggio del1’83 al largo di Sanremo. Era un esemplare di cinque metri. Un sacchetto di plastica nero e pesante, di quelli che servono per contenere cartoncini da sviluppo fotografico, gli aveva ostruito la bocca della stomaco. Cosi, impossibilitato a nutrirsi, l'animale era morto di fame”, raccontano Michela Podestà e Luca Magnaghi che stanno per laurearsi a Milano con una tesi sui cetacei nel Mediterraneo. “L’anno dopo fu rinvenuto spiaggiato a Ortona un capodoglio. Gli fu fatta un’autopsia alia buona: nella stomaco furono trovati molti sacchetti di plastica mentre molti altri erano passati nel secondo stomaco. Difficile per noi allora stabilire se Ia morte di quel capodoglio in Adriatico fu dovuta proprio alia plastica”. Luca e Michela, tutti e due
ventisettenni, hanno navigato per tre anni soprattutto al largo della Liguria verso la Corsica per incontrare delfini e balene. Hanno avvistato globicefali, grampi, stenelle e molti esemplari di balenottera comune, quel gigante che nel Mediterraneo raggiunge quasi i venti metri di lunghezza: “L’abbiamo vista saltare in mare aperto. Abbiamo provato una grande emozione e allo stesso tempo molta tristezza per questi grandi e meravigliosi animali assediati dall’uomo, costretti a vivere in una pattumiera”. Le accuse di Luca e Michela sono inconfutabili. E si aggiungono a quelle di Antonio di Natale e Antonia Mangano dell’Istituto di biologia animale ed ecologia marina dell’Università di Messina. Anche loro hanno dimostrato che Ia plastica uccide. Nel loro intervento al convegno sugli spiaggiamenti nel Mediterraneo (Riccione, ottobre ’85) hanno portato la testimonianza di un capodoglio trovato soffocato da sacchetti di plastica alcuni anni prima (gli atti stanno per essere pubblicati a cura di Sandro Corazza e dell’Adriatic Sea World di
Riccione). E proprio dalla morte di quel capodoglio nacque una campagna pubblicitaria gratuita, ideata dalla McCann Erickson e dal suo presidente Gianni Cottardo per cercare di fermare una piaga che già nell’82 era evidente. Lo slogan della campagna era: “Sacchetti di plastica in giro? No grazie”. L'immagine era quella di un pesce imprigionato dalle buste. II testo diceva: “Almeno sei miliardi di sacchetti di plastica vengono usati ogni anno in Italia. Sono tanti e, soprattutto, indistruttibili. Dove li butti, restano. E sporcano boschi, inquinano mari, intrappolano piccoli animali. Per questo ogni volta che un sacchetto di plastica viene lasciato in giro, la natura muore. Pensaci”. La McCann-Erickson, che voleva festeggiare cosi i suoi venticinque anni di vita, trovò molti editori disposti a offrire spazio gratuito e raccolse un miliardo tondo per lanciare Ia campagna. “Fummo appoggiati dalla Rai e da tutti i settimanali”, ricorda Gianni
Cottardo e precisa: “Lanciata Ia campagna, nel1'83 ricevemmo una lettera di minacce da parte della Unionplast, l'unione nazionale tra le associazioni dei trasformatori di materie plastiche. Ci accusavano di concorrenza sleale e finirono poi per citarci in tribunale: chiedevano un miliardo di danni perché secondo loro Ia campagna non era chiara e demonizzava la plastica. Per noi invece era proprio l’Unionplast che avrebbe dovuto spiegare ai consumatori che Ia plastica era indistruttibile e doveva essere usata con cautela”. A tre anni di distanza Ia prima sezione civile del tribunale di Milano presieduta da Clemente Papi ha dato ragione alla McCann-Erickson, difesa dal professor Giancarlo Rivolta. Una sentenza esemplare che ha sconfitto, al primo round, i potenti padroni della plastica, un'associazione di 300 aziende con 15.000 dipendenti e un giro di affari di 280 miliardi all'anno e 120 miliardi di valore aggiunto. Una massa di fabbriche (270 producono plastiche diversificate per imballaggio, nettezza urbana e i famigerati sacchetti della spesa, 30 sono invece indirizzate esclusivamente all’agricoltura e producono film per protezione di colture e pacciamatura di piante) a cui si aggiungono 200 laboratori artigiani che impiegano circa 800
addetti. Una realtà consolidata da 30 anni di vita e che è arrivata oggi a produrre qualcosa come 92.000 tonnellate all’anno di prodotti. Una immensa valanga che ci sta seppellendo tutti: i sei miliardi di sacchetti dell’82 sono diventati otto miliardi e mezzo all'anno con un aumento costante annuo intorno al cinque per cento. Accanto ai sacchetti bianchi o celesti del tipo più semplice ci sono due miliardi e rotti di pezzi di produzione sofisticata: qui il danno all’ambiente è maggiore perché le grandi buste dalle forme più diverse e coi manici duri sono colorate con sostanze tossiche (fino agli stampigli dorati) e sono dichiaratamente bandite per contenere sostanze alimentari. Ma poi finiscono lo stesso per inglobare rifiuti organici, finiscono lo stesso nelle discariche a cielo aperto, in quelle controllate e in quelle abusive che sono il 75 per cento del totale. Se tutto questo non bastasse a dipingere un quadro devastante del problema bisogna aggiungere una produzione di dieci miliardi all'anno di bottiglie e bottigliette di plastica dura e la presenza sui mercato dei grandi teloni semitrasparenti di plastica spessa come pelle d’elefante che, paradossalmente, vengono usati a protezione di veleni nelle cosiddette discariche controllate. Le stime più attendibili dicono che l’equivalente di 100 miliardi di sacchetti di plastica è sparso tra terra e acqua dalle vette delle Alpi, tra i ghiacciai, fino alle grotte nascoste nei fondali un tempo irraggiungibili del mare nostrum. Nata praticamente all’inizio degli anni Cinquanta per opera di alcuni ricercatori italiani (Natta vinse addirittura un premio Nobel per Ia chimica), la plastica sembrò essere la soluzione di tutti i problemi e il più tangibile segno di progresso civile. È un derivato del petrolio e la parte che ci interessa per il problema dei sacchetti e ottenuta più precisamente dalla polimerizzazione dell’etile e per questo la si chiama anche polietilene: i chimici la definiscono una resina formata da una sequenza di migliaia di atomi di carbonio agganciati ciascuno a due atomi di idrogeno. Questa la definizione scientifica del polietilene, che è la plastica per imballaggi più diffusa, ma non la sola. E qui il discorso si allarga in modo preoccupante al problema di fondo. Di quali plastiche si parla comunemente? E quante tra queste sono dannose alla salute dell’uomo, degli animali e delle piante? E ancora: che tipi di veleni producono bruciando da sole o mischiate ad altre sostanze presenti purtroppo nei rifiuti solidi urbani? Il più autorevole dito accusatore contro il polietilene e gli altri polimeri dell’etile viene da un’americano, il professore Barry Commoner, uno dei padri storici dell'ecologismo, ricercatore insieme a Thomas Webster, Karen Shapiro e Michael McNamara del Queens College di Flushing, nello Stato di New York. Commoner ha presentato nel giugno ’85 una relazione dettagliata al 78° meeting dell’Associazione per il controllo dell’inquinamento atmosferico: gli inceneritori che bruciano rifiuti solidi urbani immettono nell’aria sostanze inquinanti pericolose per la vita umana, come le paradibenzodiossine clorurate (Pcdd in sigla). In parole povere significa una cosa estremamente grave: bruciando i rifiuti si mette in circolazione diossina, atroce veleno che a tutti gli italiani ricorda il dramma di Seveso. L’allarme di Commoner ha varcato l’oceano arrivando come un fulmine in Italia, uno dei paesi che producono più plastica nel mondo. Commoner però viene accusato di essere un visionario che vuol metter in ginocchio l’industria mondiale della plastica. Così l’Unionplast passa all’offensiva e produce a spron battuto articoli e servizi giornalistici a difesa del polietilene. “Che vuol dire che nei rifiuti urbani bruciati e presente la diossina? Di diossine ne esistono 210 tipi diversi e solo pochissime di queste sono dannose. E poi le percentuali emesse dai bruciatori sono minime. La plastica, cari signori, è insostituibile e l’inquinamento che produce è solo visivo, può far ribrezzo vederla dovunque ma certo non è dannosa: questi in sostanza gli argomenti on cui si difendono le industrie plastiche come Ia Chemichem, l’Enichem, la Montedison e l’Ipi (International plasticsitaliana). Contro i padroni della plastica c’e uno schieramento debole: oltre alla McCann-Erickson, infatti, qualcosa e stato fatto solo dagli ambientalisti e dal Comieco, il Comitato per l’imballo ecologico formato da numerose aziende produttrici di sacchetti di carta e di imballaggi di cartone che hanno deciso di contrastare la concorrenza della plastica cercando di convincere l’opinione pubblica a preferirle la plastica. Risultato dell’operazione è stata la raccolta di 191 tonnellate di carta.. Insomma, un’iniziativa lodevole ma incapace di ostacolare realmente l’invasione dei sacchetti di plastica. Quanto ai verdi spesso invitano il pubblico a non comprare la plastica, a usare contenitori alternativi di carta, rafia, a rispolverare le retine di plastica o al limite a usare gli stessi sacchetti riciclandoli almeno per un mese intero cosi da ridurne il consumo a poche unita l’anno. Sono gocce di protesta in un mare d’indifferenza. Anche quando Commoner torna alla carica e, in un convegno promosso dalla Lega per l’Ambiente il 10 settembre scorso a Roma, dichiara: “Le ultimissime ricerche in Usa dicono che i bruciatori producono diossina. E del tipo più tossico, quella definita 2, 3, 7, 8 Tcdd, quella che provoca il cancro. E la plastica è uno dei componenti responsabili di questa diossina”. Plastic story ultimo atto. Un finale a sorpresa tra l’amaro e il macabro, tra il ridicolo e l’ironico. Per decreto dell’ex ministro dell’Industria Renato Altissimo tutti i contenitori non biodegradabili comunque non degradabili che si usano in commercio saranno messi fuori legge a partire dal 1991. È un colpo al cuore dell’industria della plastica? È Ia vittoria dei pochi ambientalisti contro gli inquinatori? È la fine della plastica che sta sommergendo il pianeta Terra? La verità è ben diversa. Innanzitutto il decreto Altissimo, emanato il 21 dicembre ‘8 4, sarà in vigore nel ’91 in base a regole che saranno definite il 31 dicembre dell’87. Ma già si delinea il pasticcio all’italiana. È dubbio, per esempio, il fatto che i sacchetti per la spesa vengano effettivamente proibiti dal decreto. La plastica, infatti, è vietata soltanto per i contenitori di alimenti in commercio a meno che non si degradi col tempo, si autodistrugga o si elimini. Saranno, dunque, banditi i prodotti che contengono polietilene come, per esempio, i tetra pack per latte e bibite varie. Ma i sacchetti per la spesa sono definibili come contenitori alimentari. La scelta di Altissimo, dunque avrebbe ben poco a che vedere con l’ambiente e l’ecologia e lo si vede bene dalla puntigliosa casistica delle norme sul peso lordo e netto per gli alimentari che sono contenute nel suo oscuro decreto. E poi, ci si domanda, perché aspettare il ’91 e vedere fiumi, laghi, mari, coste e spiagge ricolme di almeno altri 50 miliardi di sacchetti e almeno 60 miliardi di bottiglie di ogni forma mentre i produttori di plastica parlano di “famigerato” decreto e lanciano anatemi al ministro, gli ambientalisti si domandano perplessi che senso abbiano tutte queste regole e leggi. All’improvviso, però, I’Unionplastica tira fuori l’asso dalla manica: finalmente, si grida, ecco l’ultima novità della tecnologia. La plastica che si degrada e sparisce via come la vecchia, cara carta d’un tempo. Gli inventori sono i chimici della Ipi (International plastics italiana) che annunciano la nascita della Ipideg (dove “deg” sta per degradabile), il sacchetto del futuro. La Ipideg si affretta a brevettarlo a Firenze nell’ottobre del 1985. Contemporaneamente parte una massiccia campagna di stampa a favore del sacchetto “ecologico”. Secondo i produttori una serie di sostanze immesse nel polietilene permetterebbero la fotodegradabilità del sacchetto. Ma quali sostanze? La Ipi non lo dice. Parla di “equilibrata combinazione di miscele di materie prime, speciali composti attivi e controllati parametri di processo tali da non alterare e compromettere le proprietà meccaniche (resistenza, flessibilita, spessore) della materia prima”. Sempre l’Ipi fornisce i dati della degradazione del sacchetto: dai 120 ai 180 giorni d’inverno, dai 60 agli 80 d’estate. E riprova della validità dell’lpideg nel gennaio scorso fornisce un dossier con la fotocopia di sperimentazioni di laboratorio effettuate dall’lcite, l’Istituto centrale per l’industrializzazione e la tecnologia edilizia del Cnr. Ma come si autodistrugge il sacchetto?In questo nuovo tipo di polietilene l’aggiunta di composti chetonici, sali di nickel, metalli, perossidi (tutta roba della cui tossicità si è certi), dovrebbe favorire la rottura e Ia polverizzazione a lungo termine del film, come si dice in gergo, della pellicola di plastica. Polverizzazione e quindi formazione di resine, gas, catrami, acidi, oli e idrocarburi. In una sola parola: ulteriore inquinamento. In realtà il sacchetto biodegradabile, la fenomenale scoperta che l’lpi ha subito lanciato con lo slogan “Non tutti i sacchi vengono per nuocere” (ma allora gli “altri” sacchi nuociono veramente!), non si frantuma. Lo hanno sperimentato in molti e senza ottenere alcun risultato visibile. Un sacchetto Ipideg è stato appeso alla flnestra della redazione di Nuova ecologia, per più di cento giorni in piena estate senza neppure lacerarsi. Alla fine anche l’Unionplastic esce allo scoperto. I sacchetti meraviglia, Ipideg che oltretutto costano il 20 percento in più di quelli normali, non vanno bene. Meglio lasciar perdere. Tutta Ia vicenda resta sospesa nel nulla. Si troverà mai il polietilene degradabile, atossico, pulito? Sarà possibile fermare questa alluvione di sacchetti che tutto ricopre? Ambientalisti e produttori stanno preparando due convegni internazionali in Italia: i primi per chiarire al massimo la situazione e offrire soluzioni alternative; gli altri per difendere la vecchia, indistruttibile plastica di sempre. Al fondo di tutto restano comunque milioni di incivili che gettano via qualsiasi cosa si ritrovino in mano. Spesso per giunta il sacchetto di plastica per loro è un alibi: ci chiudono dentro i rifiuti e lasciano questa messaggio di incultura ovunque.Ma con buona pace di coloro che la plastica la sparpagliano e di quelli che la producono - e anche di quelli che la combattono - nel futuro del pianeta non deve esserci spazio per i sacchetti di plastica. Per il bene di tutti ci si dovrà rassegnare a portarsi a casa la spesa con quelli di carta. Lo fanno già da tempo a New York, del resto. forse anche noi dovremo accettare il rischio che il sacchetto si laceri pian piano sulla strada di casa fino a lasciar cadere sul selciato tutto ciò che contiene. A Jane Fonda e Robert Redford, in A piedi nudi nel parco, la cosa portava anche bene. Oppure lo riempiremo un po’ meno o, se la spesa è tanta, lo metteremo, magari con altri dieci, in uno di quegli scatoloni di cartone usati, sempre disponibili al pubblico nei supermercati Usa. Scomodo, dite? Ma non è forse meglio delle rive dei fiumi agghindate d’obbrobrio e dei cetacei agonizzanti sulle spiagge per aver scambiato un pezzo di polietilene per un calamaro?
Fabrizio Carbone