La moderna pirateria: un libro-inchiesta che fa meditare

Scritto da Il Mare
14 febbraio 2011
Da Peter Pan all’Isola del Tesoro, dai fumetti ai film i pirati fanno presto irruzione nella vita dei bambini e gli adulti non sono da meno. Il film I Pirati dei Caraibi ha riempito le sale dei cinema di tutto il mondo e il costante successo dei romanzi di pirati stanno a testimoniare il grande fascino esercitato dalla pirateria. Queste sono alcune delle considerazioni che aprono la prefazione di Björn Larsson al libro inchiesta Nei mari dei Pirati scritto da Nicolò Carnimeo. E Larsson che di pirati se ne intende per aver scritto, tra l’altro, il famosissimo La vera storia del pirata Long John Silver, di Carnimeo scrive: “Nel leggere la straordinaria inchiesta di Nicolò sui pirati moderni che popolano i mari mettendo in pericolo il commercio marittimo, non si può fare a meno di chiedersi se in futuro questi predoni del mare entreranno nella leggenda accanto a Roberts, Barbanera, Morgan e altri temibili capitani dell’epoca d’oro della pirateria.”
La petroliera Savina Gaylyn
Ma l’ultimissimo atto di pirateria, il sequestro della petroliera italiana Savina Gaylyn, un mostro di 266 metri e di 105mila tonnellate di stazza, sicuramente non è destinato a essere immortalato nella coscienza collettiva e ad alimentare il nostro immaginario romantico.
Le ultime notizie ci dicono che la petroliera, diretta verso le coste somale, è seguita dalla fregata Zeffiro grazie all’attività di sorveglianza anche dal satellite Cosmo-Skymed. Per un intervento armato dei nostri fucilieri che richiede però un deciso via libera del governo, i tempi sono ristretti ma le condizioni sembrano favorevoli perché la nave è in mano a soli cinque pirati che si alternano nel controllare la navigazione e tenere d'occhio l’equipaggio della petroliera dalle dimensioni di una portaerei. La Zeffiro imbarca un elicottero e un team di fanti del reggimento San Marco specializzati nel “boarding” di navi mercantili. Un blitz nel cuore della notte o alle prime luci dell'alba utilizzando l'elicottero e i veloci gommoni potrebbe consentire di prendere rapidamente il controllo della nave. Si spera…
Nicolò Carnimeo
Abbiamo chiesto a Carnimeo – giornalista e scrittore oltre che docente di Diritto della navigazione all’Università di Bari – alla luce di questo sequestro di fornirci una chiave di lettura della attuale situazione geopolitica della moderna pirateria che ogni anno colpisce più di 17mila navi dal SudEst asiatico al golfo di Aden. Fonti giornalistiche hanno stimato che nel suo complesso la pirateria abbia un costo – compreso quello notevolissimo del pattugliamento marittimo di tutte le Marine impegnate – di dodici miliardi di dollari all’anno. Spesa che grava per gran parte sulle tasche dei consumatori finali perché se aumenta l'onere del trasporto, aumenta anche quello delle merci che per il 90% viaggiano via mare. Senza considerare le possibili ripercussioni sul prezzo del greggio.

Ecco quanto abbiamo appreso dal giornalista Carnimeo:
“La Savina Gaylyn è vittima della strategia che spinge i bucanieri ad attaccare sempre più lontano dalle coste somale e dal Golfo di Aden adoperando mercantili già sequestrati e utilizzati come “navi madre”, che fonti militari stimano in circa venti unità.  Ma la vera novità – come riferito da fonti dell’Imb (International Maritime Bureau di Londra) – è che per la prima volta i pirati somali trasbordano i marittimi sequestrati da una nave all’altra. Il primo caso è avvenuto il 12 gennaio scorso, quando sei marittimi (due danesi e quattro filippini) sono stati trasferiti dalla loro nave a bordo di un peschereccio adoperato per l’abbordaggio.
Mappa aggiornata degli attacchi di pirateria nel mondo. 

Questa tattica potrebbe complicare notevolmente sia le attività di negoziazione non riferibili all’intero equipaggio, sia le eventuali azioni di rilascio, nonché le garanzie di sicurezza per gli stessi marittimi.  Cambiano così anche le dinamiche tra pirati ed equipaggio sequestrato poiché questo non è semplicemente prigioniero – come avvenuto per gran parte dei casi sino ad oggi – ma deve cooperare attivamente alle attività di abbordaggio delle altre navi con tutti i rischi conseguenti. L’escalation di attacchi tra gennaio e i primi di febbraio del 2011 non si deve solo al mutamento di strategia dei pirati; vanno analizzati altri fattori di rischio. Il primo è legato alla delicata fase geopolitica di destabilizzazione della penisola arabica. Ragioniamo in termini di scenario con un esempio. Se le scintille che hanno infiammato la Tunisia e l’Egitto dovessero allargarsi allo Yemen (paese verso il quale l’Italia ha fatto un notevole sforzo di cooperazione, specialmente in chiave antipirateria) lo scacchiere geomarittimo del Golfo di Aden diventerebbe ancora di più difficile controllo per le forze che attualmente lo pattugliano.
La tipica bandiera pirata del XVIII secolo con sfondo nero, teschio e tibie incrociate è chiamata Jolly Roger. Prima di un abbordaggio veniva nascosta ed al suo posto issata una bandiera di identificazione diversa, sfruttando così l'effetto sorpresa.
C’è il rischio che questo paese diventi un’altra sponda logistica delle attività di pirateria, che in parte già è, come dimostrato dalle indagini su alcuni abbordaggi avvenuti lo scorso anno nella parte meridionale del Mar Rosso, possibili grazie a supporto e complicità in Yemen.
I facili guadagni e la relativa impunità della quale hanno goduto finora i pirati somali, hanno generato un effetto domino capace di ramificarsi anche ad altri paesi ove il controllo statuale/tribale dovesse affievolirsi o mutare prospettiva. Il caso Somalia è eloquente: le quattro grandi organizzazioni iniziali (Somali Marines, Coast Guard, Marka Group e Puntland Group) che operavano dalle coste del Puntland a Eyl e da altre basi a Sud, sono più che triplicate e oggi se ne contano almeno quindici che hanno una preparazione tecnica e militare in grado di sferrare attacchi anche a centinaia di miglia dalla costa. A queste devono aggiungersi, così come definiti nel codice Nato, i Pirate Action Groups che spesso non sono riferibili alle gang principali, ma si formano spontaneamente e vengono armati e finanziati da chi ormai abitualmente investe in attività corsare.
La bandiera del pirata Barbanera
Negli alberghi di Garowe c’è chi si sottopone a lunghe anticamere pur di essere ricevuto da chi è disposto a concedere denaro per tentare un abbordaggio. Gli investitori sono pirati che hanno lasciato l’attività o che sono divenuti fiduciari di gruppi criminali o insospettabili faccendieri all’estero ai quali arrivano i veri guadagni di questa industria. Si stima infatti che solo il 30% dei proventi della pirateria rimanga in Somalia, mentre il restante 70% segue conti esteri nei vari paradisi fiscali in Europa e Medio Oriente. Il giro d’affari è notevole: oggi il costo medio di un riscatto di aggira sui 5,5 milioni di dollari. Nel 2009 sono stati pagati nella sola Somalia ben 117 milioni di dollari e 238 milioni di dollari nel 2010.
Fonti armatoriali riferiscono che considerando anche i costi indiretti (negoziazioni, assicurazioni, carburante, investimenti in security) la cifra pagata dagli imprenditori navali arriva a 830 milioni di dollari.  Nei giorni scorsi, oltre alla nostra petroliera, è stata sequestrata al largo dell’Oman la Irene SL che trasportava circa 260mila tonnellate di crudo per un valore di 200 milioni di dollari. Fonti dell’International Association of Indipendent Tankers Owners hanno riferito che il carico della nave sarebbe pari al 20% delle importazioni giornaliere di greggio degli Stati Uniti. Si accennava prima all’impunità della quale hanno goduto i pirati somali. Non è stato ancora efficacemente risolto il problema della giurisdizione.
Chi deve processare i pirati catturati? L’accordo di alcuni paesi occidentali con il Kenya (Italia compresa) è stato un fallimento, e molti pirati sono stati rilasciati senza neppure aver subito un processo. Non è stato istituito o non sono stati attribuiti i poteri ad un tribunale internazionale ad hoc. Il risultato è: più pirati, sempre più determinati con un aumento esponenziale dell'intensità del conflitto, che porta inevitabilmente a una maggiore aggressività degli abbordaggi.
Lo conferma anche in una recente dichiarazione all’Associated Press Buster Howes, comandante operativo della EU Navfor Somalia, il quale ha detto che molti marittimi sequestrati sono ormai oggetto di torture e vengono adoperati come scudi umani.  Come ci si può difendere nel nuovo scenario? Oltre al noto filo spinato elettrificato alcune navi si sono dotate di «cellule blindate» nelle quali il comandante e i marittimi in caso di abbordaggio si asserragliano come in un bunker e continuano a pilotare la nave verso i soccorsi.  Ma vi sono anche recenti innovazioni, presentate nel convegno «Uomini e tecnologie per sconfiggere i pirati» che si è svolto alla Confitarma, in cui la Selex sistemi integrati del gruppo Finmeccanica ha presentato «Pompeius», dispositivo che combina diversi sistemi di sorveglianza, uno a bordo della nave (ship segment) e l’altro a terra (shore segment). Il primo è un sistema di sorveglianza elettro-ottico ad alto fattore di ingrandimento (che include sensori tv e telecamere a infrarossi) progettato per rilevare l’avvicinamento di piccole imbarcazioni a distanza e dare immediato allarme.
Il pirata Barbanera
Ancora più efficace è un nuovo dispositivo capace di creare intorno alla nave una specie di «bolla» elettromagnetica che agisce su tutti i dispositivi elettronici, bloccandoli. Le imbarcazioni pirate all’abbordaggio rimarrebbero, quindi, senza motore e strumenti di navigazione (Gps) in balia delle onde. Vi è poi l’opzione dell’uso di militari a bordo in chiave difensiva che è stato già adoperato da diversi paesi, anche europei. Il dibattito in Italia è tutt’ora aperto. Recentemente è stato predisposto un piano per l’utilizzo di militari della Marina (si pensa ai fucilieri del battaglione San Marco) da utilizzare se la Confitarma e la Marina militare si diranno favorevoli. L’attuale governo, come si evince da dichiarazioni dello stesso ministro La Russa e da alcuni disegni di legge, sembra invece favorevole all’uso di contractors privati. Chi scrive, considerate anche altre esperienze internazionali, condivide la prima ipotesi, considerato anche che le navi che battono il tricolore sono «pezzi» del territorio italiano. I nostri militari opererebbero in base a precise regole di ingaggio e grazie al loro specifico addestramento potrebbero rappresentare una garanzia ulteriore nel caso di una degenerazione degli esiti di un abbordaggio. E ciò a tutela dell’integrità dei marittimi. Anche la possibile attuazione del provvedimento, considerati i caratteri di urgenza dell’iniziativa, è relativamente semplice perché sarebbe sufficiente un decreto legge che autorizzi l’uso dei militari a bordo, poi ratificato dal governo. Nel caso invece dell’uso dei contractors bisognerebbe cambiare la nostra legislazione che non consente le armi a bordo dei mercantili e in caso di incidenti si aprirebbero delicati scenari legati alle responsabilità a carico degli armatori stessi.”