La nostra Elena Dak ha di nuovo incontrato Rosa Antonietta Bertolino, una “figlia della tonnara” di Favignana. Pubblicammo la cronaca del primo incontro lo scorso mese di settembre e quel post è stato tra i più visitati. Vi invitiamo a leggere altri ricordi della storia Di Rosa legata a doppio filo con la “fabbrica” di tonno dello Stabilimento Florio, arricchita da esclusive fotografie che custodisce come fossero reliquie. Uno scambio di telefonate. Rosa ha piacere di farmi vedere un libro con vecchie foto della tonnara.
Ci sentiamo mentre si trova a Marsala, città nella quale si trasferirà. Durante il trasloco, una parte dei mobili si è rovinata e ora ha anche questo cruccio. Torna sull’isola. Durante il giorno è indaffarata e mi dà appuntamento nel pomeriggio, quando le luci si smorzano anticipando la sera. Arriva con una sporta di plastica dentro la quale custodisce questo libro che, a suo dire, contiene centinaia di informazioni dettagliatissime sulla storia dello Stabilimento Florio. Mentre sfoglio le pagine lentamente indugiando nei dettagli di ogni scatto, lascio a Rosa il tempo per parlare. Le foto ritraggono scene di mattanza, tonni appesi in fila su pali per far sgocciolare il sangue, altre dipingono i vapori che si spandevano durante la bollitura del tonno e pare che lei possa ancora inalare quegli odori come se evaporassero dalle fibre della carta: “ Era favoloso! Favoloso! Sentire il profumo del pesce che si spandeva nell’aria, tutto intorno…!”. Rosa e le altre stavano sedute su alti sgabelli di legno per vedere bene i tranci. Lei li “sbucciava” , vale a dire che toglieva la pelle. Luigi Parodi passava in rassegna i vari comparti della fabbrica girando in bicicletta, accertandosi che tutto andasse bene per gli operai. Sapeva che si mangiavano il tonno di nascosto e se la sua sagome si palesava all’improvviso smettevano di masticare come bambini colti sul fatto, e non diceva niente. Il nonno di Rosa, Antonio, lavorava nella fabbrica del vino che Vincenzo Florio, grande imprenditore, aveva fondato a Marsala. Rosa me lo dice con orgoglio come se entrare a lavorare per quella famiglia nota di industriali e per quei Parodi che ne avrebbero continuato l’opera, fosse nel suo destino da generazioni. Dice di saper cucinare bene e mi racconta del suo cous cous e della caponata elencando la lista degli ingredienti. Con tutti quei figli aveva un bel tribolare ai fornelli per ore. Un tempo la vita era diversa, “mangiare, lavorare e coricare” senza tante distrazioni.
Alle otto di sera a casa finiva la giornata. Estrae da un cartoccio, con le mani calme di chi sta svelando un tesoro, la parte superiore di una vecchia latta del tempo dei Florio, trovata anni fa sugli scogli vicino allo stabilimento. La tiene come una reliquia. Se sente la sua storia legata a doppio filo a quella della fabbrica anche quella latta è parte della sua carne. Mi ricorda la poesia che ha dedicato alla tonnara, parole a lei care come se si trattasse di parole d’amore. Sono parole d’amore:
Il mio lavoro della tonnara / di Favignana. Ho fatto con amore / e passione, è stata un’esperienza / bellissima, ancora sento l’odore e / il sapore del tonno, non posso / dimenticarlo, è più forte di me. Vorrei / ritornerà di nuovo ma non è possibile. / Ma di tutto questo non è una fantasia / Ma è la mia vera storia.
Una delle foto ritrae donne nell’asilo intente a custodire i piccoli. Il bianco e nero racconta le forme e le storie come il colore stenta a fare, talvolta. Rosa tiene le mani giunte sul grembo e mi osserva anche se pensa che io non me accorga. Mi permette di offrirle solo un bicchier d’acqua, nient’altro per questo corpo esile e minuto che vorrebbe occupare meno spazio di quel che prende come se per minor volume o superficie offerta al mondo, minore fosse il rischio di essere colpita dal ricordo dei dolori passati e di incorrere in nuovi. Rosa mi chiama per trovarci una volta ancora. Dice che vuole darmi delle cose. Nel fare il trasloco trova tanta roba che non vuole buttare e nemmeno può tenere. Così pensa di darla a me. La presento persone a me vicine e lei saluta di voce e di mano ma il suo corpo si ritrae, abituato a difendersi dalle insidie della vita, tante, fin troppe. Della sua giovinezza di madre non parla, della sua infanzia bambina non dice. Ripenso al video della sala Torino quando descrive il suo abito da sposa tenuto largo dal cerchio nella parte bassa, una coroncina di fiori intorno al capo e tutti che le dicevano che era “bambina, così bambina”. Che ne sapeva lei della vita e delle cose della vita. Oggi, mentre estrae delicatamente dalla sporta conchiglie e pezzi di rete da pesca, mi dico che della vita sa eccome ma dentro le sue forme esili è rinchiusa una bambina che, se solo potesse, tornerebbe a sbucciare tonno allo stabilimento per sognare di essere piccola, di avere una bella casa, per tornare al tempo in cui “che ne sapeva della vita!” Elena Dak