U mari nun si spirtusa! Il mare non si buca, è lo slogan che accompagna la manifestazione di protesta “
Meglio l’oro blu dell’oro nero” contro la minaccia delle trivelle nel mare del Canale di Sicilia. Le associazioni di pescatori,
Agci Agrital e Legapesca, si sono unite per appoggiare l’appello di
Greenpeace: il mare è e deve restare dei pesci e dei pescatori, il canale di Sicilia è già sede di intensissimi traffici navali, molti anche pericolosi per la tutela della biodiversità e delle risorse, e la minaccia delle trivelle è la goccia che fa traboccare un vaso colmo da un pezzo.
Nella foto: da sin. Giovanni Basciano Resp.le Reg.le AGCI pesca, On.le Francesco Aiello Assessore Regionale delle Risorse Agricole e Alimentari, Giuseppe Gullo Resp.Reg.Legacoop Pesca, Franco Andaloro ISPRA, Alesandro Giannì Resp GreenpeaceÈ chiaro che nel Canale si prepara una folle corsa all’oro nero: le richieste e dei permessi le compagnie petrolifere da un lato hanno già trovato dei giacimenti che si preparano a sfruttare, dall’altro moltiplicano le richieste per esplorare i fondali marini alla ricerca di nuovo petrolio. Senza un intervento immediato per tutelare le risorse del mare e le economie locali che da esse dipendono, queste acque rischiano di diventare un “mare di trivelle” con rischi inaccettabili per le comunità che vi si affacciano.
In verde - permessi di ricerca vigenti, in rosso - le concessioni di coltivazione (estrazione) vigenti, in giallo - le aree oggetto di istanze di permesso di ricerca, in azzurro - le aree richieste in concessione di coltivazione. Un appello è stato presentato al Ministero dell’Ambiente e della Tutela del Territorio e del Mare per chiedere di fermare le perforazioni off-shore e approvare, anche di concerto con gli altri paesi rivieraschi, provvedimenti efficaci per la tutela dell’ecosistema del Canale di Sicilia, a partire dall’istituzione di una ZEP (Zona Ecologica Protetta) sul modello di quanto già fatto per il mar Ligure e il mar Tirreno.
È ancora vivo il ricordo della “marea nera” provocata dall’incidente della piattaforma Deep Water Horizon che trivellava nel Golfo del Messico a oltre 1500 metri di profondità. Un disastro che oltre ad aver ucciso migliaia di animali e danneggiato miglia di chilometri di costa, si stima abbia causato danni alle economie locali che potrebbero arrivare ai diciotto miliardi di euro per il solo settore del turismo. Con l’esaurimento dei giacimenti di petrolio più facilmente ed economicamente sfruttabili, le compagnie petrolifere hanno iniziato a guardare con interesse ai giacimenti prima considerati scarsi e di difficile accesso, tra cui le acque profonde dei nostri mari. Le richieste di permessi per perforazioni in mare in aree di altissimo valore ambientale si moltiplicano dal Brasile al Golfo del Messico, dall’Artico al nostro Mediterraneo. E le grandi compagnie in gioco sono sempre le stesse, dalla Shell alla British Petroleum alla nostra ENI. È chiaro che se non investiremo nelle energie alternative e non spingeremo sull’efficienza dei trasporti il rischio di trivellazione in mare aumenterà con il diminuire delle risorse convenzionali di petrolio.
E in Italia purtroppo siamo fortemente dipendenti dal petrolio: ogni anno si consumano più di 70 milioni di tonnellate di olio greggio, che provengono per lo più da fonti estere. Nel 2011 la quota estratta in Italia soddisfaceva circa il 7% del fabbisogno nazionale e di questo solo il 14% proveniva da attività ubicate in mare.
I giacimenti al largo delle nostre coste sono sempre stati considerati scarsi e quindi, fino ad oggi, ben poco sfruttati. Estrarre petrolio dai nostri mari quindi non servirebbe a soddisfare il nostro fabbisogno energetico, a fronte di rischi inaccettabili per l’ambiente e le economie che da esso dipendono. Il gioco non vale la candela, e allora perché questa folle “corsa all’oro nero” nei negli ultimi anni?
Mentre si bloccano gli incentivi alle energie rinnovabili, il governo favorisce ulteriormente gli interessi dei petrolieri prima permettendo lo sfruttamento dei giacimenti nel Golfo di Taranto e poi con il Decreto Legge “Misure Urgenti per la crescita del paese”, cercando di annullare le limitazioni imposte dal Decreto 128/2010 che allontanava le trivelle dalle coste e dalle aree protette. Al momento i permessi già accordati per fare ricerca di idrocarburi in acque italiane sono 26 e ben 42 le richieste per nuove esplorazioni; senza contare che potrebbero tornare a essere valide le richieste precedenti al 2010 anche se in zone interdette.
A farla da padroni nella corsa all’oro nero sono compagnie straniere ben conosciute come la Shell, principale operatore dei permessi di ricerca a nord del Canale per una superficie di oltre 4200 kmq, e la Northern Petroleum, che possiede ben sette istanze di ricerca e ne ha presentate altre 9. A seguire compagnie come ENI e EDISON, Transunion Petroleum e Audax Energy.