Nella stesura del presente lavoro abbiamo scelto di suddividere la materia in tre parti. Nella prima, di carattere generale, dopo aver descritto per sommi capi la presenza continua nel tempo e nello spazio della pirateria e della corsa, nonché i sottili limiti che separarono l'una dall'altra, si è cercato di delineare in estrema sintesi i "grandi avvenimenti" politici e militari, ma anche culturali e religiosi, che si svolsero nel secolo XVI nell'area europea e mediterranea. Abbiamo accennato al decadimento degli Stati regionali italiani e al rafforzamento degli Stati nazionali in Europa che portò la Francia e la Spagna ad una prolungata contesa per conseguire la supremazia, insistendo sulla colpevole disinvoltura con cui la Cristianità, distratta dal "miraggio" americano, lasciò spazio alla prepotente espansione musulmana verso Occidente. Infine, abbiamo analizzato le varie tappe del conflitto che per molti decenni impegnò l'Islam e la Cristianità nelle acque del Mediterraneo, con particolare attenzione alle vicende degli Stati barbareschi del Nord Africa. La seconda parte è stata dedicata alla descrizione dell'attività piratesca e corsara nella Liguria del '500 e all'analisi del sistema anticorsaro della Repubblica di Genova, con specifico riguardo alle strutture difensive del Levante. Si è messo in evidenza che, mentre nel corso del secolo XV agì nelle acque liguri una pirateria "di livello inferiore", seppur diffusa e dannosa, che si può definire "anarchica" poiché si estrinsecava in azioni di saccheggio e di rapina dirette contro chiunque e allorché ne capitava l'occasione, senza alcun scrupolo di bandiera e, soprattutto, senza alcun piano preordinato, nel secolo XVI, con l'intensificarsi della guerra tra la Cristianità e l'Islam nel Mediterraneo, si verificò l'evoluzione da una pirateria cieca ed occasionale ad un' attività corsara più organizzata e mirata (ci riferiamo soprattutto a quella musulmana poiché di quella cristiana poco si conosce), inserita in un contesto più ampio. Abbiamo quindi concentrato la nostra analisi, attraverso un lungo lavoro d'archivio, sulle incursioni effettuate dalle "galere turchesche" contro i paesi del Levante ligure nel trentennio 1540-1570 con i conseguenti saccheggi e cattura di schiavi, perché proprio in tali anni le genti liguri vissero quotidianamente nell’incubo e nel terrore dei corsari barbareschi. Infine, si è analizzato il sistema difensivo anticorsaro della Repubblica genovese, con particolare attenzione al Levante, che ci è apparso, per tutto il '500, disorganico ed inefficiente; infatti esso, che si basava sulla perlustrazione del mare prospiciente il litorale ligure e sul controllo svolto dalle fortezze e dalle torri, era estremamente perforabile, sia perché le navi impegnate erano insufficienti alle necessità, sia perché la funzione di avvistamento e di segnalazione era, per più motivi, assai precaria. Di conseguenza molto importanti risultavano le "lettere patenti" che la Signoria inviava, non appena aveva notizie di spostamenti e di avvicinamenti di navi barbaresche al mar Tirreno, alle comunità delle due Riviere per metterle in allarme e per far loro intensificare la sorveglianza per mezzo di quelle "guardie" e "militie" che, con non poca fatica, i Podestà e i capitani d'arme organizzavano, ma che, ancora una volta, per la loro precarietà, raramente impedivano ai Barbareschi di effettuare le loro incursioni. La terza parte del lavoro è stata completamente assorbita dalla descrizione del fenomeno della schiavitù e delle modalità di riscatto dei sudditi del Levante ligure. Infatti, oltre ad aver evidenziato quelle che erano le condizioni degli schiavi cristiani in terra musulmana, ci siamo rivolti in particolare, attraverso lo studio dei documenti dell'Archivio di Stato di Genova, all’analisi delle operazioni del "Magistrato del riscatto degli schiavi", istituito a Genova nel 1597. Tale magistratura, attraverso un difficoltoso reperimento e trasferimento del denaro a Tabarca e nelle città schiavili e per mezzo di estenuanti trattative - facendo ricorso ad incaricati e intermediari laici e religiosi - pervenne alla liberazione di moltissimi sudditi genovesi, le cui miserie e sofferenze abbiamo imparato a conoscere, seppur spesso esagerate, attraverso le "supliche" da essi inviate a Genova. Si è, poi, accennato agli "interrogatori" a cui gli ex schiavi redenti, una volta rientrati in patria, venivano sottoposti da parte dei "Protettori del Magistrato per il riscatto degli schiavi" con lo scopo di ottenere svariate informazioni sul periodo da essi trascorso nei luoghi di prigionia, e alle non poche difficoltà di reinserimento familiare e sociale da parte degli ex schiavi che, meno raramente di quel che si possa credere, portava alcuni di loro al rifiuto della fede cristiana. Riguardo al fenomeno dell'abiura abbiamo considerato che esso era causato non solo da atti di costrizione da parte dei padroni dei prigionieri ma anche da spontanee scelte di schiavi, ex schiavi e uomini liberi, le quali erano determinate, soprattutto, da motivazioni sociali, poiché ai loro occhi la vita del "renegato" appariva senz'altro più facile di quella che avrebbero potuto riprendere a svolgere in terra cristiana. Le pressioni, di natura fisica e morale, per indurii "a farsi turchi", erano esercitate, infatti, solo su determinate categorie di schiavi che, con la loro conversione, avrebbero potuto arrecare dei vantaggi ai loro padroni islamici. Infine si è visto che i rinnegati si integravano in modo relativamente facile nelle società barbaresche, spesso risultandone gli elementi più attivi ed intraprendenti, e che alcuni di loro giunsero a ricoprire posizioni ed incarichi di assoluta rilevanza e prestigio.